Fra il dire e il fare: la XIV conferenza di Berlino sull’open access

La XIV conferenza di Berlino sull’open access, i cui partecipanti venivano da 37 nazioni – Cina, Corea, Giappone e Sud Africa compresi – e da 5 continenti, ha prodotto una dichiarazione finale che comporta l’impegno:

  • a lasciare agli autori i loro diritti, invece di cederli agli editori;
  • all’accesso aperto completo e immediato;
  • e ad accordi di trasformazione per una transizione delle riviste, senza costi aggiuntivi, verso un accesso aperto completo nel giro di non più di due o tre anni.

Questo programma, per la presenza di opportunità alternative – legali e no – di accesso agli articoli scientifici, non è solo verbale: un numero non irrilevante di consorzi bibliotecari e biblioteche universitarie ha già rotto o si appresta a rompere le trattative con gli oligopoli editoriali che non aderiscono ai suoi princìpi. Fra questi spicca la Svezia, paese relativamente piccolo che, grazie a un coinvolgimento in prima persona e al massimo livello di tutto il suo sistema di ricerca, ha rifiutato – senza danni particolarmente gravi – un contratto con Elsevier che comportava un aumento dei costi e un accesso aperto ibrido.
In Italia il gruppo Crui ha invece aderito a un contratto molto simile a quello proposto da Elsevier in Svezia, il cui principale effetto collaterale, il double dipping, è stato già trattato in un precedente comunicato dell’AISA. Questa scelta può essere pericolosa per almeno due motivi:

  1. perché allontana l’Italia da una prassi internazionale ormai diffusa, schierandola dalla parte degli oligopoli editoriali;
  2. perché espone le università italiane a un’ulteriore espropriazione, minacciata in un emendamento alla proposta di legge sull’accesso aperto in discussione alla commissione cultura della Camera, il quale trasferisce a Consip la competenza sui negoziati con gli editori.

In Svezia Elsevier, consapevole di non poter sopravvivere senza i ricercatori, sta cercando di tornare al tavolo delle trattative: ci auguriamo che questo esempio incoraggi la Crui a difendere per il futuro, nei fatti prima che nelle parole, l’autonomia scientifica e negoziale delle università italiane.

1. Un principio e una fine

A partire dalla Dichiarazione di Berlino sull’accesso aperto alla conoscenza del 2003, si tiene ogni anno una conferenza per misurare – e ridurre – la distanza fra le parole e i fatti. L’incontro del 2017 si era concluso con una Manifestazione di interesse, firmata anche dalla Conferenza dei Rettori delle Università Italiane, la quale puntava, senza detrimento per le altre forme di accesso aperto, a spostare quanto università ed enti di ricerca pagano per gli abbonamenti verso l’open access.

Questo intendimento non era stato esente da critiche: se il potere oligopolistico dei cosiddetti “core journals” dipende dai criteri di valutazione della ricerca, pagare per scrivere anziché per leggere non rende la discussione scientifica più accessibile. Se, cioè, quelle riviste rimanessero le sedi obbligatorie per chi vuole pubblicazioni in grado di fargli fare carriera, si smetterebbe – lo mostra l’esperienza britannica – di pagare troppo per leggere solo per cominciare a pagare troppo per scrivere, a danno degli autori di paesi e istituzioni “poveri”.1 Se, invece, si cambiasse la valutazione della ricerca, potremmo finalmente cominciare a trattare gli oligopolisti dell’editoria come – fungibili – fornitori di servizi, con i quali si potrebbe negoziare – e no – molto più liberamente, e, nel caso, rivolgersi a editori alternativi o far uso di proprie piattaforme.

Plan S, lanciato dall’INFN assieme ad altre dieci istituzioni europee, aumentate poi a quattordici, e a cui si è aggregata anche la Bill & Melinda Gates Foundation, ha fatto tesoro di queste critiche: valutare la ricerca per i suoi propri meriti e non per la sede di pubblicazione, come richiesto dalla San Francisco Declaration on Research Assessment, è condizione di possibilità imprescindibile di un accesso aperto pieno e immediato. Facendo proprio questo principio gli enti fautori di Plan S richiedono:

  • che gli articoli su ricerche finanziate da fondi degli stati e dell’Unione europea siano pubblicati su riviste o piattaforme ad accesso aperto;
  • che siano inoltre auto-archiviati al momento della pubblicazione in un archivio aperto, sotto licenza CC-by o CC-by-sa;
  • che possano essere pubblicati ad accesso aperto su riviste ad abbonamento solo se queste hanno sottoscritto un accordo di trasformazione il quale stabilisca una scadenza rapida e certa per la sua transizione all’accesso aperto;
  • che il copyright rimanga all’autore;
  • che sia assicurata trasparenza nei costi e nei contratti, anche in merito agli APC, dai quali devono essere esonerate le istituzioni più povere, e che andranno soggetti a una normalizzazione o a un tetto.

Plan S pone alla transizione all’accesso aperto un termine perentorio e prossimo: il 1 gennaio 2020. Questo orizzonte ha indotto i partecipanti alla conferenza berlinese, che venivano da 37 nazioni – Cina, Corea, Giappone e Sud Africa compresi – e da 5 continenti, a una dichiarazione finale per molti aspetti simile, che comporta un triplice impegno:

  • a lasciare agli autori i loro diritti, invece di cederli agli editori;
  • all’accesso aperto completo e immediato;
  • e ad accordi di trasformazione per una transizione delle riviste, senza costi aggiuntivi, verso un accesso aperto completo nel giro di non più di due o tre anni.

2. Fra il dire e il fare

Come racconta il poster presentato da AISA alla conferenza berlinese, noi italiani, in merito all’accesso aperto, avendo una certa esperienza nel dire, sappiamo bene che il fare è tutt’altra cosa. Che c’è di diverso questa volta, al di là di una dichiarazione di intenti che si può firmare e lasciar riposare fino alla conferenza successiva?

La conferenza, questa volta, si è proposta di allineare le strategie di chi legge e di chi scrive, nella convinzione che l’accesso aperto sia oggi realizzabile non soltanto a parole. La bibliometria come surrogato della valutazione della ricerca ci incatena agli oligopoli commerciali che ci rivendono a caro prezzo i nostri dati e metadati: rendersi conto che comprendere e giudicare la scienza è tutt’altro mestiere – come ha spiegato Peter H. Seeberger nel suo intervento – è il primo passo per liberarsene.

Come ha ripetuto Jeff MacKie-Mason, economista e bibliotecario della University of California, dopo 25 anni di Open Access, le università statunitensi più virtuose riescono ad aprire all’uso pubblico della ragione una percentuale di opere che oscilla fra il 6% e l’11%. Nel frattempo, i costi degli abbonamenti sono continuati a salire e il potere degli oligopolisti dell’editoria commerciale si è ulteriormente concentrato. Il feticismo bibliometrico induce infatti gli autori a regalare il copyright delle loro opere scientifiche agli editori commerciali, e con questo il monopolio sull’accesso.

Siamo, però, in un momento in cui l’accesso è divenuto meno esclusivo non solo per le varie forme di Open Access, ma soprattutto grazie ad alternative “grigie” e “nere” – e dunque di per sé precarie – quali Sci-Hub. Questo ha reso più facile a un numero non irrilevante di consorzi bibliotecari e biblioteche universitarie rompere le trattative con alcuni oligopoli editoriali senza troppe conseguenze: solo il 5% dei ricercatori del California Institute of Technology, per esempio, si è rivolto alla biblioteca per accedere ad articoli usciti in riviste il cui abbonamento era cessato.

MacKie-Mason, anticipando che il sistema delle università californiane – il quale produce circa il 10% dell’intera letteratura scientifica degli Stati Uniti – non rinnoverà il contratto con Elsevier se non otterrà l’accesso aperto immediato tramite un read and publish deal, ha concluso così:

We cannot just sit by and watch the few and the brave.

3. I coraggiosi, i pochi: la cancellazione svedese

La Svezia intende mettere tutta la sua ricerca in accesso aperto entro il 2026. A questo scopo il consorzio bibliotecario Bibsam e la Conferenza dei rettori delle università svedesi avevano proposto all’oligopolista Elsevier un accordo triennale con i seguenti termini:

  • accesso aperto immediato entro il 2020 per tutte le pubblicazioni svedesi;
  • diritti di lettura a tutte le riviste incluse nella cosiddetta Freedom collection, comprese “The Lancet” e “Cell”;
  • pubblicazione ad accesso aperto su tutte le riviste di cui sopra;
  • nessun costo aggiuntivo che comportasse il superamento dei circa 13 milioni di euro del precedente contratto.

Al tavolo del negoziato non sedevano funzionari o professori in veste di funzionari, bensì i direttori delle biblioteche dell’università di Stoccolma e del Karolinska Institute, due rappresentanti esecutivi del consorzio Bibsam al lavoro presso la Biblioteca nazionale svedese e, occasionalmente, dei rappresentanti del ministero dell’istruzione e del Vetenskapsrådet, il principale ente finanziatore della ricerca nazionale, sotto la presidenza della rettrice dell’università di Stoccolma, Astrid Söderbergh Widding. E quando Elsevier rispose con una controproposta che includeva:

  • un contratto di durata quinquennale, solo in seguito ridotta a triennale;
  • un aumento del costo di accesso in lettura;
  • APC scontati, ma con uno sconto decrescente, nonché pagati in anticipo;
  • per arrivare a una percentuale di circa il 70% di opere ad accesso aperto;

la conferenza dei rettori, nella primavera del 2018, indicò a Bibsam, all’unanimità, di non rinnovare il contratto a quelle condizioni. La rettrice Astrid Söderbergh Widding spiegò personalmente il perché:

I costi crescenti delle licenze e degli APC ci impongono di cambiare il sistema della comunicazione scientifica. Prezzi così alti stanno depauperando i fondi di ricerca statali a favore di imprese commerciali. Dobbiamo mettere i costi sotto il nostro controllo, e crediamo che i tempi siano maturi per farlo, ora che la Germania ha dato l’esempio e anche altri paesi si apprestano a imitarla.

Elsevier tentò, senza troppo successo, di raccogliere commenti di ricercatori ostili all’iniziativa, mentre, dall’altra parte, non fu difficile trovare espressioni di approvazione. Le biblioteche di ricerca svedesi erano preparate ad aiutare gli utenti in difficoltà e a rispondere alle loro osservazioni. L’università di Stoccolma mise a disposizione i soldi così risparmiati per il finanziamento di pubblicazioni nativamente ad accesso aperto.

Ed Elsevier? Elsevier, per quanto abbia un forte interesse all’accesso aperto “ibrido”,2 che le permette di farsi pagare e per leggere e per scrivere, sta cercando di riaprire la trattativa. Perfino in un paese relativamente piccolo, com’è la Svezia, i ricercatori riescono a sopravvivere senza Elsevier, mentre Elsevier non potrebbe sopravvivere senza i ricercatori. La Conferenza dei rettori svedese, mettendoci la faccia, ha avuto l’intelligenza e il coraggio di dimostrarlo.La faccia di Astrid Söderbergh Widding

È vero che l’opzione del negoziato – anche duro – con gli oligopolisti dell’editoria sembra una strategia conservatrice rispetto all’ideale di un’infrastruttura pubblica e – a criteri di valutazione invariati – non immune da rischi; ed è altrettanto vero che senza una riforma del copyright che riconosca allo studioso, professionista e no, un diritto morale inalienabile all’uso pubblico della ragione, e senza un serio impegno antitrust, le sorti dell’accesso aperto saranno abbandonate al mercato, o, meglio, al gioco distopico di Big Business e Big Government. E tuttavia è stato interessante vedere, nel corso della seconda giornata del convegno berlinese, che Elsevier, Springer e Wiley hanno paura perfino di una strategia che mette solo mediatamente in discussione il loro ruolo: tutti gli editori, a parole, sostengono l’accesso aperto, ma nei loro modi e, soprattutto, nei loro tempi, cioè, preferibilmente, alle calende greche. Come se temessero che testi esposti al pubblico, strappato il velo della bibliometria, potessero dimostrare che il sapere ha ben poco a che fare con l’involucro costoso nel quale pretendono di smerciarlo.

4. La paralisi italiana

In Italia, il gruppo Crui-Care ha accettato e fatto accettare un contratto con Elsevier simile a quello che in Svezia è stato rifiutato senza danni particolarmente gravi, di durata quinquennale e con double dipping incluso. Un comunicato dell’AISA ha già parlato di questa vicenda; Paola Galimberti, su “Roars”, sta invitando a non ripetere lo stesso errore nel negoziato, ormai prossimo, con Springer.

Ma, perché l’errore non si ripeta, bisogna anche chiedersi se ci sia una peculiarità italiana per la quale la Crui, a prescindere dalla scelta di non svolgere il negoziato ai massimi livelli e di non coinvolgere i ricercatori, sia stata indotta a disattendere un impegno internazionale che ha pubblicamente sottoscritto.

A Berlino si è detto liberamente che la bibliometria non ha nulla a che vedere con la scienza: in Italia, a causa della valutazione di stato, un ricercatore non lo può pensare – e soprattutto non lo può praticare – con la stessa libertà. A causa della valutazione di stato, i ricercatori – e con loro i rettori – sono indotti a credere di aver bisogno di Elsevier: questa sudditanza spiega perché si è dato per scontato che in Italia tutti accettassero un contratto ormai molto arretrato rispetto alla prassi internazionale. Se all’università italiana si nega l’autonomia scientifica, a dispetto dell’articolo 33 della costituzione, come si può sperare che si mostri capace di autonomia negoziale?

Alla Commissione Cultura della Camera è in corso di discussione una proposta di legge sull’accesso aperto firmata dal deputato Gallo, del Movimento 5 Stelle: il 15 novembre vi è stata aggiunta una proposta emendativa3 del partito di maggioranza secondo la quale l’acquisto dei testi scientifici dovrebbe essere passato a Consip. La conferenza dei rettori delle università svedesi, di fronte a una simile espropriazione, spiegherebbe al legislatore che gli acquisti editoriali sono parte della ricerca stessa, e non devono essere negoziati da funzionari bensì, con trasparenza e condivisione dei princìpi, da chi rappresenta i ricercatori stessi. I rettori delle università italiane potrebbero – precedenti alla mano – permettersi di dire lo stesso?

Non è ancora troppo tardi per dimostrare di sì.

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  1. Fin tanto che, infatti, crederemo che il valore di un’opera scientifica dipenda dalla sua sede editoriale, non ci saranno alternative alla pubblicazione nei “core journals”: i poveri possono fare a meno di pagare per leggere, valendosi di altre vie – più o meno rapide, e più o meno legali – ma non potranno evitare di pagare per scrivere.
  2. Basta visitare OpenAPC per rendersi conto che, almeno da quanto risulta dai dati resi disponibili, a partire dal 2013 Elsevier è il primo editore per ricavi derivanti da accesso aperto ibrido.
  3. Si veda il pertinente atto della Commissione VII, alla pagina 11.

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