Questa bozza, composta dal consiglio direttivo, si propone di esporre la posizione dell’AISA in merito ai piani nazionali per la scienza aperta. Prima di renderla definitivo preferiamo sottoporla alla discussione dei soci, che possono intervenire sia qui sotto, con un commento, sia tramite la nostra mailing list.
Quando la scienza, nella prima età moderna, diventò aperta, da alchimia che era, non ebbe bisogno di piani nazionali. Per pubblicare il suo Sidereus Nuncius Galileo Galilei non aspettò uno speciale mandato del Sant’Uffizio: “Parmi necessario, per aumentare il grido di questi scoprimenti, il fare che con l’effetto stesso sia veduta et riconosciuta la verità da più persone che sia possibile”. Per i fondatori della scienza moderna era infatti abbastanza chiaro che, come scriveva Paolo Rossi alla fine del secolo scorso,
dissimulare, non rendere pubbliche le proprie opinioni vuol dire solo truffare o tradire. Gli scienziati, in quanto costituiscono una comunità, possono essere costretti alla segretezza, ma devono, appunto, essere costretti. Quando una tale costrizione si verifica, variamente protestano o addirittura, come anche in questo secolo è avvenuto, si ribellano a essa con decisione. La particella di nell’espressione linguistica «leggi di Keplero» non indica affatto una proprietà: serve solo a perpetuare la memoria di un grande personaggio. La segretezza, per la scienza e all’interno della scienza, è diventata un disvalore.
Perché poco meno di quattro secoli dopo, oggi, si avverte il bisogno di un piano nazionale per la scienza aperta? Perché, in particolare, se ne avverte il bisogno in Italia?
I bibliotecari sanno bene, perché le biblioteche ne hanno pagato il prezzo più alto, che, nell’ultimo quarto del secolo scorso, la valutazione della ricerca è stata sottratta alle discussioni delle comunità scientifiche per essere cristallizzata nella forma di dati bibliometrici proprietari, in modo da poter essere compiuta anche e preferibilmente da chi è disciplinarmente inesperto. L’esito, solo in apparenza paradossale, è stato la privatizzazione della pubblicazione entro abbonamenti dai costi crescenti, o tramite patti altrettanto svantaggiosi in cui autori e istituzioni pagano di nuovo per rendere i loro testi accessibili a tutti, proprio quando la diffusione di dati e testi è divenuta più facile ed economica grazie alla rivoluzione digitale.
In questo quadro i piani nazionali per la scienza aperta, così come gli obblighi dell’Unione Europea e dei finanziatori della ricerca in generale, sono certamente utili, in quanto correttivo a una libertà della scienza – dei testi, dai dati e degli scienziati stessi – che, conquistata con fatica, è stata nel secolo appena trascorso facilmente perduta. Se molti ricercatori, salvo eccezioni, sono stati abituati a trattare la pubblicità delle “pubblicazioni” come irrilevante, le loro istituzioni e il pubblico non fanno male a chieder loro di riprenderla in considerazione. Che, infatti, le cosiddette “pubblicazioni” siano in effetti privatizzazioni leggibili solo a pagamento rimane uno scandalo ingiustificato e persistente. Gli autori scientifici non ricevono un compenso dalle riviste di settore per quanto vi scrivono; e non lo ricevono i colleghi che, con i loro pareri, selezionano i testi meritevoli di essere pubblicati. Non sono gli editori a pagare il loro stipendio e a finanziare la loro ricerca, bensì le tasse e le imposte degli studenti e dei contribuenti italiani, i quali, però, devono pagare di nuovo gli editori o tramite il denaro pubblico speso dalle biblioteche per gli abbonamenti, o direttamente di tasca loro per accedere ai risultati di quanto è stato prodotto con i loro soldi. Non è unicamente e in primo luogo una questione di denaro: una scienza per pochi non è solo meno discutibile e dunque meno verificabile o falsificabile, contro lo spirito di Galileo Galilei, ma anche socialmente e culturalmente meno utile di quanto potrebbe essere.
In Italia esiste un’ulteriore complicazione. Attualmente la nostra valutazione della ricerca – tutta o quasi bibliometrica1 – non è distribuita fra le università, gli enti di ricerca e le comunità dei ricercatori, bensì centralizzata in un sistema amministrativo che ha sollevato non poche obiezioni da parte degli studiosi di diritto. Come ricorda, per esempio, Roberta Calvano,
oggi l’autonomia è già fortemente compressa dalla legge 240 e dai decreti legislativi che l’hanno attuata, mentre la legge dovrebbe limitarsi a porre una cornice esterna rispetto ad ordinamenti autonomi costituzionalmente garantiti. Abbiamo poi una normazione secondaria che ha sommerso negli ultimi anni le università” [- nelle quali ormai] i professori invece di fare ricerca e didattica passano il tempo compilando rapporti e resoconti in cui tentano di giustificare la loro esistenza.
Di questo regime “ipernormato e ipercontrollato” e della sua “dittatura dell’algoritmo”, la quale ha reso incidentalmente molto difficile ad atenei ed enti di ricerca italiani praticare una scienza aperta che vada oltre le dichiarazioni si è consapevoli anche a livello ministeriale: a maggior ragione, dunque, a causa della scarsissima autonomia della ricerca italiana, un intervento correttivo risulta necessario.
E però, come scrive Enrico Grosso, tutti gli interventi normativi che ledono “la piena autonomia nella didattica e nella ricerca” “principio cardine e irrinunciabile del nostro ordinamento” andrebbero, costituzionalmente, rigettati.
Se la mia intenzione di studiare un problema di nicchia compromette la mia carriera, non sono più libero. Se la mia modalità di trasferire il sapere viene intrappolata da una serie di vincoli che riguardano l’ erogazione della didattica (mai termine fu più infausto per indicare lo splendido rapporto che può realizzarsi tra docente e discente), non sono più libero. Se la valutazione di un progresso di apprendimento deve «tenere conto» di indicatori che penalizzano, direttamente o indirettamente, la struttura in cui opero, non sono più libero.
Il dubbio, in altre parole, è che un piano nazionale per la scienza aperta, calato semplicemente all’interno del regime italiano della valutazione di stato, rischi di non riaprirla affatto, ma gravi i ricercatori – come sempre senza consultarli – di oneri burocratici ulteriori e li faccia smettere di pagare troppo per leggere ma solo per cominciare a pagare troppo per scrivere, rendendoli oggetto di nuove forme di sfruttamento. Dei rischi di una via solo amministrativa alla scienza aperta, che ponga dati e testi in libertà vigilata, ma non liberi affatto i ricercatori dall’iperorganizzazione e da i condizionamenti della distopica coppia di Big Business & Big Government, AISA è stata consapevole fin dalla sua fondazione.
È dunque cruciale – e perfino possibile – che un piano nazionale italiano per l’ open science rispetti la libertà della scienza e del suo insegnamento e l’autonomia dell’università come sancita dall’articolo 33 della costituzione. Non è infatti incostituzionale né creare un ente terzo che osservi e renda pubblici i processi che avvengono nelle università – comunicazione del sapere compresa – e istituirne un’anagrafe, né rendere più facili, trasparenti e perfino scientificamente responsabili nei confronti del pubblico, in virtù della disponibilità di testi e dati liberati dalla stretta degli oligopoli dell’editoria e della bibliometria commerciale, le procedure con cui i ricercatori si valutano reciprocamente, né, a maggior ragione, approfittare di questa stessa disponibilità per sollevarli dalla pletora di oneri amministrativi che grava il loro lavoro. Se tutti possono leggere quello che scrivo, che bisogno ho di compilare rapporti e resoconti per tentare di giustificare la mia esistenza?
Il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca merita certamente apprezzamento, sia per aver preso l’iniziativa di un piano nazionale per la scienza aperta, sia per aver coinvolto nella sua redazione persone che in più di una veste – istituzionale o, come nel caso dell’AISA, associativa – hanno partecipato al movimento della scienza aperta. In una prospettiva più ampia, però, è doveroso segnalare che questa iniziativa non è immune da rischi, se si intendesse trapiantarla in una struttura sostanzialmente immutata di mercato della comunicazione scientifica nonché di governo dell’università e degli enti di ricerca e di valutazione amministrativa centralizzata della ricerca stessa.
In primo luogo, sarebbe indispensabile che dati, metadati e testi ritornassero sotto il pieno controllo delle università e degli enti di ricerca, tramite un’infrastruttura pubblica, sviluppata a partire dall’esistente e amministrata in modo comunitario e federato. Secondo un’analisi recentissima pubblicata da SPARC, gli oligopoli dell’editoria scientifica commerciale, consapevoli che il sistema degli abbonamenti è destinato a esaurirsi, si stanno orientando verso la fornitura di strumenti di valutazione e produzione della ricerca e di teledidattica: ma chi controlla i nostri dati e il modo in cui insegniamo e lavoriamo, controlla – invisibilmente – noi. L’accesso aperto – se dati e testi restano sui loro server – rischia di rimanere non solo costoso ma largamente insufficiente alla realizzazione dell’ideale di una scienza interamente aperta.
Né possiamo dimenticare, in secondo luogo, che la scienza (aperta) è nata rivendicando non solo la propria pubblicità, ma anche e soprattutto la propria indipendenza da qualsiasi principio d’autorità. Questo la rende radicalmente incompatibile con la valutazione di stato attualmente praticata in Italia. Un ricercatore- automa che aggiunge meccanicamente – e talvolta opportunisticamente – al suo curriculum il bollino dell’ open science, in luogo o in supplemento del Journal Impact Factor, dell’h index e della fascia A, non è in grado di fare scienza, e tanto meno aperta. In generale, senza autonomia degli enti di ricerca e istruzione superiore, senza una democratizzazione del governo della valutazione e senza una liberazione delle sue norme comunitarie informali da ogni equivoca commistione amministrativa non ci può essere scienza aperta.
In terzo luogo, se la scienza aperta vuole avere un effetto culturale, sociale ed economico allargato non può ridursi a un privilegio dei ricercatori di professione o, peggio, a un onere di università ed enti di ricerca reso complicato da una generale disciplina del copyright orientata in base agli interessi degli oligopolisti della proprietà intellettuale. Senza una riforma organica del diritto d’autore, del brevetto e del segreto industriale, la scienza aperta rimarrà una via costosa, o eroica, ma in ogni caso di impatto contenuto. Il destino della proposta di legge Gallo e la prossima attuazione della direttiva europea sul diritto d’autore nel mercato unico digitale indicheranno qual è la politica che vuole perseguire l’Italia. E, in generale, i passi che verranno o no compiuti dopo questo primo, rilevante, piano nazionale per la scienza aperta, mostreranno se quest’ultima vuol essere perseguita come – eteronomo – modello amministrativo o come ideale – autonomo – di promozione ed emancipazione umana.
- I cosiddetti settori non bibliometrici si basano però su soglie quantitative di articoli usciti in riviste scientifiche e di fascia A i cui elenchi sono determinati, per via amministrativa, dall’Autorità Nazionale per la Valutazione dell’Università e della Ricerca. Che queste riviste siano ad accesso aperto è del tutto accidentale – mentre certamente chiusi sono i dati su cui si basa la valutazione della ricerca italiana.
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