L’ANVUR e Open Research Europe

Negli elenchi aggiornati delle riviste dichiarate scientifiche dall’ANVUR continua a mancare Open Research Europe (ORE), infrastruttura di revisione paritaria aperta offerta dalla Commissione dell’Unione Europea agli autori i cui lavori di ricerca sono esito di finanziamenti europei. Visti i precedenti, questa assenza non sorprende. Ed era anche già chiaro che la recente “Disposizione transitoria per la Open Peer Review” del regolamento aggiornato per la classificazione delle riviste non avrebbe cambiato il verdetto perché ORE ha il difetto di non uscire in fascicoli.

Non occorrerebbe aver aderito a COARA, come ha fatto formalmente l’ANVUR, per rendersi conto che l’organizzazione in fascicoli del contenitore non ha a che vedere con l’eventuale scientificità del suo contenuto. All’agenzia, però, non interessa la scienza, bensì la sua contenzione in gabbie editoriali sulle quali sia possibile applicare la bibliometria come arma di valutazione di massa. Non si tratta, del resto, di valutazione scientifica, bensì di valutazione di stato.

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Premio per tesi sulla scienza aperta (bando 2024): i vincitori

La commissione giudicatrice ha concluso la valutazione delle tesi concorrenti al bando di quest’anno e ha proclamato vincitori, per la tesi di laurea magistrale, la dottoressa Alice Catalano e il dottor Emanuele Cavalleri; per le tesi di dottorato, la dottoressa Valentina Gamboni.

Il verbale dei lavori della commissione, composta da Rossana Ducato (presidente), Davide Borrelli, Luca De Santis, Giulia Priora, è visibile qui.

Di statistica e virtù: i criteri della VQR 2020-2024 e la riforma europea della valutazione della ricerca

L’Unione Europea, resasi conto che le valutazioni quantitative della ricerca producono solo quantità, ha sollecitato valutatori, università, enti di ricerca e società scientifiche a unirsi in una coalizione per la riforma della valutazione stessa (COARA) a cui ha aderito anche l’ANVUR. Entrando in COARA, l’ANVUR si è impegnata a trattare la bibliometria come complementare rispetto a forme di valutazione qualitativa che richiedono di leggere i testi. Ma le sue azioni e i suoi piani d’azione vanno in tutt’altra direzione: nei settori delle scienze umane e sociali ha conservato le liste di riviste di produzione amministrativa e in quelle delle scienze matematiche, mediche, fisiche e naturali continua ad accettare criteri bibliometrici calcolati su banche dati proprietarie. Questi criteri sono imposti perentoriamente per selezionare gli aspiranti candidati e commissari all’Abilitazione Scientifica Nazionale, e gli esperti valutatori nell’esercizio quinquennale della valutazione della ricerca detto VQR; e la prescrizione di impiegarli in modo formalmente complementare nel giudizio sulle opere esposte alla VQR è, nel segreto della revisione anonima, facilmente aggirabile.

Perché l’ANVUR non onora la sua firma? Forse perché non è un’autorità indipendente e COARA ha semplicemente sbagliato ad accoglierla in luogo del Ministero dell’Università e della ricerca? La letteratura prodotta da studiosi praticamente e teoreticamente vicini alla valutazione di stato suggerisce però almeno un’altra ipotesi: una valutazione basata sul primato della revisione paritaria, richiedendo di leggere i testi, non può essere di massa e, secondo qualcuno, è influenzabile da idiosincrasie personali sia nella scelta dei valutatori, sia nelle loro valutazioni. Per questo un’agenzia di valutazione di stato e di massa come quella italiana non può evitare di abbarbicarsi alla bibliometria, sia perché ha bisogno di armi di valutazione di massa per conservare il proprio pervasivo potere, sia perché, dietro un velo di statistiche, automatiche e no, è più facile nasconderne la natura autoritaria.

1. La bibliometria nella VQR 2020-2024

Soprattutto quando è gerarchica e pervasiva come quella italiana, la valutazione di stato della ricerca è un atto di sfiducia nella libertà dell’uso pubblico della ragione, il quale delegittima sia le università e gli enti di ricerca statali – rappresentati come così scadenti da aver bisogno di una valutazione esterna alla discussione scientifica – sia il governo che la impone per via non scientifica bensì amministrativa.

Molte valutazioni di stato, avendo forza ma non scienza, usano criteri bibliometrici, senza considerare ciò che gli studiosi scrivono, incomprensibile alle amministrazioni, bensì la quantità di pubblicazioni, le loro sedi e il numero delle loro citazioni. Perfino l’Unione Europea si è ora resa conto che le valutazioni quantitative ottengono esattamente ciò di cui impongono la misura, vale a dire non qualità ma quantità, e patrocina una coalizione, COARA, allo scopo di riformarle. Gli impegni principali di chi vi aderisce sono:

  1. riconoscere la varietà dei contributi e delle carriere dei ricercatori
  2. fondare la valutazione della ricerca in primo luogo su valutazioni qualitative incentrate sulla revisione fra pari, sostenute da un uso responsabile di indicatori quantitativi
  3. abbandonare l’uso inappropriato, nella valutazione della ricerca, di metriche basate su riviste e pubblicazioni, quali il JIF e l’ H-index
  4. evitare l’uso delle classifiche (ranking) delle organizzazioni di ricerca nella valutazione della ricerca

La riforma europea riguarda il modo in cui si valuta, come se fosse solo un problema tecnico, senza affrontare esplicitamente la questione di chi, per quale scopo e con quale legittimazione valuta. Così hanno aderito a COARA anche agenzie di stato quali l’ANVUR, che hanno imposto e usato forme di valutazione prevalentemente bibliometriche.

Avevamo già notato che ANVUR è riuscita a disattendere i pur lati impegni 2 e 3, imponendo requisiti bibliometrici perentori e non complementari sia a commissari e concorrenti nell’Abilitazione Scientifica Nazionale, sia agli esperti valutatori nominabili o sorteggiabili nell’esercizio quinquennale di valutazione di università ed enti di ricerca burocraticamente noto come VQR 2020-2024.

I criteri successivamente annunciati dai singoli gruppi di esperti valutatori per la VQR 2020-2024 rispettano formalmente gli impegni di COARA. Infatti:

nell’esercizio di Valutazione della Qualità della Ricerca VQR 2020-2024 il GEV valuta la qualità di ciascun prodotto con la metodologia della peer review, o revisione tra pari […]. Tale approccio tiene anche conto di quanto previsto dalla seconda raccomandazione della Coalition for Advancing Research Assessment, secondo la quale la valutazione deve essere principalmente basata su aspetti qualitativi, per i quali è centrale il ruolo della revisione tra pari supportata da un uso responsabile degli indicatori di tipo quantitativo.1

Bisogna però chiedersi se nei cosiddetti settori bibliometrici questo rispetto non sia esposto al rischio di essere solo pro forma. Gli indicatori citazionali, calcolati su costose banche dati proprietarie in mano a oligopolisti commerciali quali Elsevier (Scopus) e Clarivate Analytics (WoS) 2 “informano” la revisione fra pari: possono, cioè, essere usati a suo sostegno pur senza determinarla automaticamente.3 Nulla, però, impedisce che, nel segreto dell’anonimato, l’informazione bibliometrica possa rimanere determinante, senza che occorra affannarsi a leggere gli articoli con attenzione e motivare i propri giudizi, essendo ormai diffusa l’abitudine a ricorrere a sistemi di generazione di testi statisticamente probabili ma privi di qualsiasi senso comunicativo venduti col nome di “intelligenza artificiale”. Anche i commissari ASN sono affetti da un carico di lavoro tale da esporli alla tentazione di ricorrere a simili strumenti: ma, essendo il loro nome noto, devono anche assumersene pubblicamente la responsabilità. Perché, invece, ai valutatori della VQR si riconosce il privilegio di sottrarsene?

2. Un compromesso fragile

Gli impegni 2 e 3 di COARA insistono sul primato, nella valutazione della ricerca, della revisione fra pari, che richiede di leggere i testi, senza però escludere il sostegno di criteri “quantitativi” e basati su riviste e pubblicazioni, purché usati responsabilmente e appropriatamente. Ma se si è riconosciuto che per valutare i ricercatori occorre leggere e capire i testi, come è possibile usare “responsabilmente” – non è chiaro verso chi – e “appropriatamente” indicatori che non richiedono né lettura né comprensione? In che modo e in che grado la popolarità entro un recinto di costose riviste in mano agli oligopolisti dell’editoria commerciale può essere trattata come complementare? O, ancora più radicalmente: lo scopo di perseguire la qualità della ricerca può essere davvero complementare a quello di farsi pubblicare e citare dalle riviste di questo recinto, a dispetto della generale inaffidabilità delle letteratura prodotta sotto la pressione del publish or perish e della bibliometria e in condizioni tali che la ricerca “is not about curiosity anymore, it’s just a career”?

Un articolo recente,4 The forced battle between peer-review and scientometric research assessment: Why the CoARA initiative is unsound, aiuta ad affrontare questi dubbi: la bibliometria non valuta la qualità della ricerca, bensì il suo impatto. “Like any goods producer, more is needed for a researcher than merely producing high-quality research products; instead, they must be disseminated effectively, akin to the necessity for selling goods”: il buon ricercatore, come chiunque produca merci, deve saper vendere i suoi prodotti, e la bibliometria misura questa sua capacità. Appunto, “it is not about curiosity anymore, it’s just a career.” “Would a company” – ci si chiede retoricamente – “ever evaluate the success of a product already launched in the market by convening expert panels instead of relying on quantitative sales analysis?” Capita, in commercio, che prodotti mediocri, efficacemente promossi, abbiano tuttavia un grande successo. Ma, se si ordina che il ricercatore debba vendersi – o meglio regalarsi – in uno pseudomercato oligopolistico perché amministrativamente imposto e circoscritto, dobbiamo trattare gli esiti letterari della ricerca come output di sistemi di produzione di massa e non come pezzi unici. E quando si tratta di fare valutazioni di massa di produzioni di massa, dobbiamo riconoscere – sostiene l’articolo – che una valutazione qualitativa, in queste condizioni di sovraccarico, diventa inaffidabile se non impossibile.

L’uso della bibliometria, come arma di valutazione di massa, è dunque inevitabile? Sì, ma solo se si pretende di continuare a fare valutazioni di massa.

3. Una questione politica

Il primato della revisione fra pari che è fra gli impegni di COARA può essere applicato sistematicamente solo a una condizione: che la valutazione di massa sia ridotta al minimo se non eliminata. E qui l’interesse dell’ANVUR, la cui ragion d’essere e il cui straordinario potere dipendono in gran parte dalla valutazione di massa, non coincide necessariamente con quello della scienza.

Non sorprendentemente, molti atti5 dell’agenzia hanno violato gli impegni che aveva sottoscritto. E anche il suo recentissimo piano d’azione per l’attuazione di COARA persevera in forme di valutazione di massa bibliometriche, basate sul contenitore (journal-based) anziché sul contenuto: il mantenimento di un sistema di liste di riviste la cui scientificità ed eccellenza sono definite direttamente o indirettamente dall’ANVUR stessa (pp. 6, 7, 10) è dato per scontato e non ci si interroga mai, neppure genericamente, su un’emancipazione dalle banche dati proprietarie di Elsevier e Clarivate Analytics.

Anche se nel piano (p. 2) l’ANVUR si rappresenta come indipendente, giuridicamente – lo ricorda Roberto Caso (pp. 9 ss) – non lo è. Così scrisse, nel 2008, Fiorella Kostoris:

l’indipendenza dell’ANVUR è minata dalla mancanza di terzietà rispetto all’Esecutivo e dagli eccessi di controlli da parte dei vari stakeholders: tutti i membri del suo Consiglio Direttivo sono, infatti, scelti direttamente o indirettamente dal Titolare del MUR e a lui o al suo Dicastero riportano, segnalano, propongono.

Stando così le cose, è possibile che l’ANVUR eluda la sostanza degli impegni che ha firmato non perché non vuole, bensì perché non può. E che COARA abbia semplicemente sbagliato a includerla in luogo di chi veramente prende le decisioni, vale a dire il ministero dell’università e della ricerca.

E tuttavia, dalla parte italiana, si possono immaginare motivi profondi perché in COARA sieda un’agenzia esecutrice di ordini abbarbicata alla bibliometria che si fa passare come indipendente. Il già menzionato The forced battle between peer-review and scientometric research assessment: Why the CoARA initiative is unsound osserva che la revisione fra pari è fortemente influenzata dai pregiudizi personali, e perciò conviene affidarsi a oggettivi professionisti della bibliometria, eventualmente coadiuvati da SALAMI, che trattano gli scienziati come “risorse limitate” il cui impiego deve essere “ottimizzato”.

Resistiamo alla tentazione di rispondere che l’uso di statistiche automatizzate e no come armi di valutazione di massa aggrega pur sempre pregiudizi soggettivi. Autori che vantano un lungo impegno a favore della valutazione di stato si sono infatti chiesti: come è possibile riformare la valutazione della ricerca secondo le indicazioni europee, bilanciando o addirittura rimpiazzando la bibliometria? E si sono fatti rispondere che bisogna valutare le virtù dei ricercatori, vale a dire le loro motivazioni stabili e i tratti del loro carattere. Ma investire, nella patria di Giovanni Gentile, un’agenzia di nomina governativa del compito di giudicare le virtù dianoetiche ed etiche dei ricercatori potrebbe far tornare alla memoria il ricordo novecentesco – forse per alcuni gradito – dello stato etico.

Che avverrebbe se un’agenzia non indipendente nominata dal governo giudicasse gli addetti alla ricerca per il loro carattere, stilando classifiche delle istituzioni più ricche di virtù? Avverrebbe che la natura autoritaria della valutazione di stato diventerebbe molto più evidente. Di contro, un velo esoterico di statistiche, preferibilmente basate su dati chiusi e proprietari, consente di devolvere il tempo altrui in onerose procedure amministrative e in impotenti discussioni fra sottomessi sull’uno o l’altro indicatore – aiutando così a dimenticare che non di valutazione scientifica si tratta, bensì di valutazione di stato.


  1. Questo testo è riportato all’articolo 4 dei documenti dei gruppi di esperti valutatori reperibili qui. ↩︎
  2. Anche se è possibile concepire e coltivare alternative aperte. ↩︎
  3. Come stabilito dall’articolo 6 dei documenti dei gruppi di esperti valutatori dei settori cosiddetti bibliometrici reperibili qui. ↩︎
  4. L’autore è un ricercatore che opera anche come funzionario al servizio dell’ANVUR. Le sue posizioni, proprio perché in strutturale conflitto fra le ragioni, mertoniane, della scienza e quelle, amministrative, dell’agenzia, meritano la massima attenzione, almeno dal punto di vista amministrativo. Il suo articolo deplora che l’invocazione di un uso “responsabile” della bibliometria svilisca la professionalità e la competenza scientifica dei bibliometristi: e certamente questo sarebbe vero se l’esercizio della bibliometria fosse solo scientifico, e dunque aperto alla discussione e adozione libera da parte delle comunità degli studiosi, e non anche amministrativo, e perciò indiscutibile e imposto sulla base di una nomina direttamente o indirettamente governativa e non sul riconoscimento spontaneo di una qualche autorevolezza. ↩︎
  5. Oltre al menzionato impiego perentorio e non complementare di criteri bibliometrici per concedere la partecipazione come candidati e come commissari all’abilitazione scientifica nazionale nonché al sorteggio e alla nomina di esperto valutatore nella VQR 2020-2024, si segnalano i tentativi di negare o di ridimensionare per via amministrativa la scientificità della revisione paritaria aperta, e la minimizzazione del requisito dell’accesso aperto per quanto concerne le opere valutate nella VQR 2020-2024, rimesso all’arbitrio dell’editore e a un embargo straordinariamente lungo (ASN e VQR dopo l’adesione italiana a COARA, p. 7). ↩︎

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Il valore della ricerca: scienza aperta fra pubblicità e pubblicazione (Pisa, 7-8 novembre 2024)

Il IX convegno annuale dell’AISA, organizzato con la Scuola Normale Superiore, si svolgerà a Pisa il 7 e l’8 novembre 2024 e sarà dedicato a Il valore della ricerca: scienza aperta fra pubblicità e pubblicazione e sarà introdotto, la mattina del 7 novembre, da una tavola rotonda dedicata allo stato della scienza aperta in Italia.
Chi è interessato a partecipare, in presenza o a distanza, può iscriversi qui.

Pagare per scrivere: quanto ci costa?

Esiste un sito, OpenAPC, che permette a università ed enti di ricerca di render pubblico quanto devolvono agli editori per pubblicare in riviste ad accesso aperto oppure ibride, quali buona parte di quelle coperte dai contratti conservativi (altrimenti detti “trasformativi”).
In mancanza di un’analisi dettagliata dei dati da parte del negoziatore collettivo italiano, se le istituzioni che aderiscono a questi contratti lo aggiornassero costantemente, sarebbe possibile ricostruire dal basso i l’esborso complessivo di denaro pubblico connesso – esborso che nel complesso sappiamo cospicuo e crescente.
Lo fa, per esempio, la Statale di Milano. Ma in Italia, nel 2023, l’hanno imitata soltanto altri quattro enti: la Normale, l’università di Modena e Reggio Emilia, la libera università di Bolzano e l’Istituto oncologico veneto. Eppure il primo passo per valutare se si spende collettivamente troppo e male sarebbe sapere e far sapere quanto si spende.

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Premio per tesi sulla scienza aperta: bando 2024

Anche quest’anno, in occasione del suo IX convegno, l’Associazione italiana per la promozione della scienza aperta premierà le migliori tesi di dottorato e di specializzazione o di laurea magistrale dedicate alla scienza aperta e presentate negli anni 2022, 2023 e 2024.

Le indicazioni sulle modalità di partecipazione al concorso, il cui bando scade il 30 settembre 2024, sono consultabili a partire da questa pagina.

Lucus a non lucendo: perché boicottare i contratti “trasformativi”

1. L’origine dei contratti “trasformativi”

L’idea dei contratti chiamati “trasformativi” fu proposta da Ralf Schimmer, nel 2015 ancora alla Max Planck Digital Library, con l’intento esplicito di trasformare il minimo indispensabile.

Many who advocate open access envisage the development of a new publishing environment—new journals, new ways of operating—in which researchers can eventually be resettled. But it may be preferable to work with the publishing habitat that has evolved organically and bring open access into it. This could be achieved by transforming the existing core journals’ business models while simultaneously maintaining their function of providing quality assurance through peer review, publishing services and brand value.

This would enable a large-scale shift to open access while still providing researchers with the services and functions of the journal publishing system in which they are comfortable. The beauty of this idea is that the disruption would be perceptible only in the organisational domain in which the money is managed; since this side of business is typically hidden from researchers, authors.1

Per aprire l’accesso alla letteratura scientifica, sosteneva Schimmer, non occorre riorganizzarne la pubblicazione altrimenti e altrove; basta pagare gli editori commerciali per rendere i testi pubblici invece di riservarli agli abbonati. Questo avrebbe avuto il gradito effetto collaterale di conservare l’assicurazione della qualità tramite la revisione paritaria e la marchiatura dei contenuti organizzate dei “core journals” che li onorano col contenerli, esito secondo lui di un’evoluzione “biologica”,2 mentre gli addetti alla ricerca avrebbero continuato a giocare il gioco del publish or perish e della valutazione bibliometrica senza accorgersi di nulla.

Se continuiamo a venire a patti con un’industria della pubblicazione che ha fatto onore al suo nome solo quando la pandemia l’ha indotta a render temporaneamente pubblico ciò che di solito privatizza, è comprensibile che i contratti che pagano gli editori per leggere e per scrivere invece che per scrivere soltanto sembrino “trasformativi”. Dobbiamo, però, essere consapevoli che, fin dal loro concepimento, il loro scopo principale non era trasformativo, bensì conservativo: preservare un sistema di valutazione amministrativa basato sui contenitori, così da permettere agli oligopoli commerciali che ne hanno il controllo di rimanere tali pur in presenza di modi di pubblicazione più aperti, meno costosi, meno centralizzati e potenzialmente innovativi. Non a caso, nel frattempo, uno degli oligopolisti dell’editoria scientifica commerciale ha riconosciuto i meriti conservativi di Ralf Schimmer assumendolo direttamente. Fuori dall’Upside Down, però, i contratti da lui ispirati non sarebbero “trasformativi” bensì “conservativi”. E con questo nome, volendo camminare diritti, li chiameremo da qui in poi.

2. Data a non dandis: i contratti conservativi in Italia

Non era difficile prevedere che gli accordi ideati da Schimmer avrebbero trasformato ben poco dal lato dell’esborso di denaro pubblico, e conservato invece quasi tutto dal lato delle rendite di posizione dell’editoria commerciale. Come già documentato, gli oligopoli sono rimasti intatti e i prezzi non sono scesi.

In Italia, la Crui offre alle università italiane un servizio di negoziazione collettiva, Crui-Care, per concludere contratti di interesse comune. Ma quanto si spende in Italia per le licenze di accesso – in lettura e in scrittura – alla letteratura scientifica? Quali sono gli effetti della sottoscrizione degli accordi conservativi? Sono state fatte analisi costi/benefici in proposito? Se sì, perché non sono pubbliche? Se sì, come hanno influito sulle scelte di Crui-Care?

Ai costi palesi degli accordi, già altissimi – più di 36 milioni di euro per l’ultimo contratto con Wiley, più di 45 milioni di euro per quello in corso con Springer-Nature e più di 167 milioni di euro per quello rinegoziato l’anno scorso con Elsevier -, si aggiungono quelli del lavoro di autori, revisori e redattori, pagati con denaro e fondi di ricerca pubblici e dell’acquisto di servizi di analisi di dati e di SALAMI (impropriamente noti come AI) basati su quanto fornito gratis dalle università, nonché degli APC aggiuntivi richiesti a chi deve pubblicare ad accesso aperto una volta esaurito il numero annuale dei token riservati alla sua istituzione.3

In Gran Bretagna il negoziatore collettivo Jisc, svolgendo le funzioni di Crui-Care e spendendo denaro altrui, si è sentito in dovere di offrire una revisione critica approfondita sulle prospettive di trasformazione delle riviste oggetto dei contratti conservativi, e ha concluso che il passaggio all’accesso aperto pieno potrebbe avvenire fra circa settant’anni, quando saremo tutti morti. In Italia, alla lettera aperta dell’AISA che chiedeva una paragonabile elaborazione, il consorzio Crui-Care non ha risposto – cosa non sorprendente in un paese in cui i publisher combattono la pubblicità, i contratti “trasformativi” non trasformano e i dati non si danno. L’onere della giustificazione – pare naturale – non spetta a chi spende denaro altrui: spetta a chi ne chiede conto.

3. Auf Deutsch gesagt: perché boicottare i contratti conservativi

Si usa, in Italia, sottrarsi alle richieste di giustificazioni con argomenti esterovestiti, del tipo “è una prassi internazionale: chi siamo noi per discuterla?”. Indipendentemente dal fatto che all’estero gli accordi conservativi vengono discussi e perfino superati,4 consideriamo il termine di confronto della Germania, il cui consorzio DEAL ha concluso con Elsevier un lungo contratto conservativo quinquennale, come in Italia, ancorché con rilevantissime differenze quantitative e qualitative.5 E, a dispetto di Schimmer, qualche studioso tedesco si è reso conto della natura conservativa della trasformazione e ne ha scritto in un articolo pubblicato su Laborjournal.

Ulrich Dirnagl ricorda che scrittura, revisione e decisione di pubblicare sono in mano ai ricercatori, ma gli editori commerciali continuano a controllare, come prima della rivoluzione telematica, la porta della pubblicazione. La transizione dall’abbonamento, che discrimina i poveri in lettura, all’accesso aperto a pagamento, che discrimina i poveri in scrittura, continua a basarsi sul principio per il quale biblioteche, università ed enti di ricerca ricomprano a caro prezzo quanto hanno gratuitamente dato. Ed è difficile uscire da questa trappola – anche dove la valutazione amministrativa non è di stato – perché i professori potenti sono stati selezionati da un’economia della reputazione basata sulle riviste commerciali e sembrano incapaci – o indisposti – di mettere in gioco il loro valore in base a quello che scrivono invece che a dove lo scrivono.

Per questo anche gli accordi negoziati da DEAL sono conservativi: rafforzano l’oligopolio dei mercanti di reputazione a danno di innovatori come PLOS, Elife Sciences o EMBO.

I tedeschi, però, hanno anche un’esperienza diversa, e proprio con l’oligopolista più invadente: nel 2018, il consorzio DEAL, dopo due anni di negoziati, rifiutò di accettare le richieste esorbitanti di Elsevier e interruppe le trattative, privando circa 200 istituzioni dell’accesso alle sue riviste. Ma per la ricerca non avvenne nulla di catastrofico: i ricercatori si procurarono gli articoli editi da Elsevier con altri mezzi e alcuni di loro continuarono a pubblicare sulle sue riviste, mentre istituzioni come la Charité di Berlino, dove lavora Dirnagl, hanno potuto destinare quanto risparmiato alle spese vive. Perché dovrebbero, ora, firmare un nuovo contratto conservativo con Elsevier?

In Germania le singole istituzioni possono scegliere di non aderire. “In particolare” – scrive Dirnagl – “non dovremmo spendere i nostri finanziamenti alla ricerca per farci sorvegliare. Perché Elsevier fa proprio questo, e anzi si potrebbe dire che ora è l’attività principale del gruppo. Si chiama eufemisticamente data analytics business. Qui la tecnologia-chiave è un tracciamento pervasivo degli utenti, che ha luogo su tutte le piattaforme Elsevier. Elsevier sa chi fa ricerca su cosa, dove, quanto e con chi”. Oltre tutto, gli enormi profitti della multinazionale olandese sono investiti in intraprese di spionaggio ancora più inquietanti, quali Palantir. L’abbandono degli occhiuti oligopoli dell’editoria commerciale per orientarsi verso un Diamond open access, estraneo allo scopo di lucro, è addirittura caldeggiato a livello europeo.

L’esperienza tedesca, l’esperienza della sua stessa università, induce Ulrich Dirnagl a suggerire qualcosa che enti molto più poveri, quali quelli italiani, dovrebbero a maggior ragione prendere sul serio: non aderire ai contratti conservativi, rifiutandosi di continuare a pagare gli oligopolisti commerciali per l’accesso aperto, o, peggio, per l’accesso aperto ibrido. Ciò non impedirebbe agli autori che vogliono pubblicare ad accesso chiuso sulle riviste di questi ultimi di continuare a farlo, praticando, per l’accesso aperto, la via verde; nel frattempo le loro istituzioni spenderebbero i soldi di studenti e contribuenti per la ricerca e per i ricercatori, invece che per farli sorvegliare. Detto in tedesco suona semplice e chiaro: perché mai, in italiano, pare così difficile?

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“Reliability, Transparency and Reproducibility” e valutazione della ricerca (Bologna, 20 maggio 2024)

L’Università di Bologna organizza un incontro sul tema Reliability, Transparency and Reproducibility allo scopo di indagare se e come affidabilità, trasparenza e riproducibilità dei risultati possano essere tradotte in criteri di valutazione della qualità della ricerca. L’evento si terrà il 20 maggio 2024 dalle ore 13.30 alle ore 18.30 in Aula Giorgio Prodi (Piazza San Giovanni in Monte 3, Bologna) ed è possibile anche parteciparvi da remoto. I dettagli sono visibili qui.