Lo segnala l’Open science blog della Statale di Milano. Fra i motivi di questa scelta merita menzionare la partecipazione dell’ateneo svizzero a COARA, la mole di lavoro amministrativo, a carico dell’università, generata dalla necessità di preparare e consegnare dati a THE, la sottomissione delle istituzioni indicizzate a criteri quantitativi, scelti dall’azienda classificatrice, che non rappresentano affatto la complessità della loro attività.
Contratti trasformativi: una lettera aperta alla CRUI
La CRUI, associazione privata dei rettori italiani, offre alle università un servizio non gratuito, noto come CRUI-CARE, per la negoziazione di contratti consortili con gli editori scientifici commerciali.
Dal 2020 CRUI-CARE ha cominciato a stipulare una serie di contratti in virtù dei quali gli editori sono pagati non solo per leggere, cioè per far accedere a banche dati ad accesso chiuso, ma anche per scrivere, cioè per pubblicare ad accesso aperto. Questi contratti sono detti trasformativi perché sono stati pensati non per istituzionalizzare la pratica, deprecata, del cosiddetto double dipping, bensì come mezzi di transizione per incoraggiare gli editori a trasformare le loro riviste in riviste interamente ad accesso aperto.
Secondo quanto registrato in ESAC, i contratti trasformativi con controparte italiana sono 17, di cui 13 sotto la responsabilità di CRUI-CARE. Sebbene sia difficile evincerlo dal suo sito, non aggiornato nel momento in cui scriviamo, alcuni contratti sono in corso di rinnovo (Wiley, ACS) o scadono alla fine del 2024 (Emerald, IEEE, RSC, Springer e Kluwer).
Come mai, di spese così imponenti in termini di impegno del denaro amministrato da pubbliche istituzioni, esito di un “processo negoziale” che “si svolge alla luce del rispetto della normativa fissata in tema di contratti pubblici”, non esiste un rendiconto pubblico? Per dare un’idea delle cifre in gioco, l’ultimo contratto con Wiley ammonta a più di 36 milioni di euro, quello in corso con Springer a più di 45 milioni di euro, e quello rinegoziato lo scorso anno con Elsevier a più di 167 milioni di euro.
La Reference Guide to Transformative Agreements suggerisce che le istituzioni, prima di negoziare contratti trasformativi, raccolgano dati sia sulle pubblicazioni dei loro autori, sia sulle spese sostenute per pagare APC a editori che li richiedono come prezzo dell’accesso aperto. In base a quali informazioni CRUI-CARE ha concluso i suoi 13 contratti trasformativi? CRUI-CARE ha raccolto qualche dato in autonomia, o si è limitata a prestar fede a quelli forniti degli editori?
In Italia, la mancanza – o la segretezza – di questo ipotetico studio preliminare rende impossibile misurare l’efficacia degli interventi e la sostenibilità della spesa. Dopo 4 anni di accordi trasformativi non sappiamo come si siano articolati i costi nelle università pubbliche italiane e quali vantaggi o svantaggi abbiano prodotto. In particolare non sappiamo (i) quanto abbiamo pagato in questi quattro anni per i contratti trasformativi; (ii) quanto pagheremo nei prossimi anni; (iii) come i contratti trasformativi si distribuiscono fra le istituzioni italiane; (iv) quante di esse hanno aderito a ciascun contratto, se ne hanno tratto vantaggio e nel caso in che misura; (v) quanta letteratura scientifica prodotta in Italia rimane accessibile solo ad abbonamento; (vi) quanto la ricerca italiana ha contribuito all’open access a livello globale con articoli pubblicati in open access a pagamento.
Non abbiamo, in altri termini, dati la cui analisi permetta alle istituzioni di impostare linee di condotta non estemporanee per gli anni futuri, e a studenti e contribuenti di comprendere come e perché il loro denaro viene speso. Continueremo a firmarli, anche se chi – come Coalition S – registra, studia e pubblica i dati sta abbandonando l’idea di pagare per scrivere per orientarsi verso il Diamond Open Access?
Alcuni sostengono che i contratti trasformativi italiani siano giustificati perché in grado di indurre gli editori commerciali a passare all’accesso aperto. Senza i dati di cui sopra, non è però possibile valutare se lo fanno effettivamente, o se invece, come concluso in paesi come la Svezia, meritano di essere superati.1
I resoconti e le presentazioni britanniche, olandesi e tedesche sembrano suggerire che i contratti trasformativi non solo hanno imposto un sovraccarico di lavoro amministrativo, ma hanno prodotto fallimenti annunciati e conseguenze indesiderate.
Era prevedibile che solo una percentuale bassissima di riviste sarebbe passata all’accesso aperto, come documentato da Coalition S: perché un editore commerciale, con un vincolo contrattuale temporaneo, e in grado di spuntare prezzi altissimi sia per leggere sia per scrivere grazie a una valutazione bibliometrica della ricerca in Italia imposta anche amministrativamente, dovrebbe aver interesse a passare all’accesso aperto? Fra le conseguenze indesiderate si annovera, invece, una ulteriore concentrazione dell’editoria e delle relative piattaforme, una netta diminuzione del numero di articoli depositati negli archivi aperti e un aumento, proprio nelle riviste cosiddette trasformative, degli articoli ad accesso chiuso.2
Sui contratti trasformativi del Regno Unito, Jisc ha composto una revisione critica approfondita e anzi doverosa per un paese che vi ha speso in questi anni 137 milioni di sterline, pubblicando 39.163 articoli.3 I revisori britannici hanno lavorato su questioni riproponibili anche per l’Italia.
- Quale percentuale della letteratura accademica è ad accesso aperto?
- Quale impatto hanno avuto gli accordi trasformativi negoziati a livello consortile sull’accesso aperto delle pubblicazioni scientifiche a livello nazionale?
- Che effetto hanno avuto gli accordi trasformativi sui costi per le istituzioni di ricerca?
- In che misura gli accordi trasformativi hanno facilitato la conformità con i requisiti degli enti finanziatori?
- In che misura gli accordi trasformativi hanno consentito una maggiore trasparenza dei processi di accesso aperto degli editori scientifici?
Il rapporto britannico, sebbene molti dati di cui ha fatto uso siano soggetti a clausole di segretezza, riferisce che la spesa per i contratti trasformativi rappresenta più di un terzo dell’esborso delle biblioteche del Regno Unito per materiale librario. Riconosce, inoltre, che, a dispetto del dispendio di denaro pubblico, lo scopo di indurre le riviste scientifiche commerciali degli editori più grandi a passare all’accesso aperto pieno si realizzerà, a questo passo, fra 72 anni,4 quando saremo tutti morti. Ci si è chiesti, inoltre, se render pubblici a carico del contribuente articoli su riviste amministrativamente prestigiose indurrà mai i ricercatori a comprendere che la pubblicità a cui l’accesso aperto mirerebbe è quella della scienza e non quella del prestigio.
Disporre di informazioni pubbliche, nazionali e internazionali, sull’ammontare della spesa e su quanto se ne è ricavato è fondamentale per capire si ci siamo approssimati ai risultati attesi, ammesso e non concesso che risultati si attendessero. A ridosso dell’eventuale riapertura dei negoziati per il rinnovo di contratti ormai trasformativi solo in un senso ironico, sarebbe cruciale discutere della loro efficacia anche nel medio e nel lungo termine, e sui possibili modelli alternativi. E sarebbe anche utile sapere se, ai sensi dell’articolo 45 comma 2 del nuovo codice dei contratti pubblici, i negoziatori CRUI-CARE ricevono, a titolo di incentivo, una percentuale dell’importo complessivo, o se la CRUI ha un regolamento specifico in merito, essendo fatta salva “la facoltà delle stazioni appaltanti e degli enti concedenti di prevedere una modalità diversa di retribuzione delle funzioni tecniche svolte dai propri dipendenti”.
Non basta raccontare che gli articoli ad accesso aperto, così generosamente finanziati con denaro altrui, sono, non sorprendentemente, aumentati di numero. Sarebbe importante avere anche le informazioni di contesto ricavabili dalla risposte alle cinque domande dei revisori Jisc.
E non sarebbe difficile ottenerle, se CRUI-CARE rendesse disponibili alle istituzioni e ai cittadini i dati necessari a decidere con cognizione di causa, a sviluppare politiche sulla scienza non estemporanee e a permettere al ministero dell’università e della ricerca di rispondere alle richieste dell’Unione Europea, popolandone i rapporti sulla scienza aperta che al momento, per quanto concerne l’Italia, rimangono desolatamente vuoti.
Chiediamo dunque a CRUI CARE di render pubblici tutti i dati sui contratti trasformativi di cui dispone. Se, per la causa dell’accesso aperto, sono stati un cosi brillante successo dovrebbe essere anche nel suo interesse.
Aggiornamento: nei Paesi Bassi le prospettive dei contratti trasformativi sono oggetto di incontri pubblici a cui partecipano tutti i portatori di interessi.
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Dal basso: un osservatorio sulla scienza aperta in Italia
Durante il 7. convegno di AISA tenutosi a Roma presso il CNR nel 2022 si è pensato di radunare università ed enti di ricerca che avessero definito al loro interno processi e responsabilità in relazione alle diverse dimensioni della scienza aperta.
Nell’incontro i referenti di ciascun ente hanno cercato di descrivere lo stato dell’arte delle politiche sulla scienza aperta nella propria istituzione. È emersa l’esigenza comune di avere dati raccolti in maniera omogenea che potessero essere confrontati, scambiati ed aggregati, con lo scopo di fornire un quadro – certamente ricco e variegato – di quanto si sta facendo in questo momento in Italia.
Questo quadro, in questo momento, manca totalmente nel nostro paese. Anche per questo il Ministero si trova in difficoltà a rispondere alle richieste di dati da parte dell’Europa. Ci è quindi sembrato utile sviluppare uno schema comune e sostenibile per monitorare le attività connesse alla scienza aperta che tenesse presente i modelli di raccolta dati dell’Unione Europea e di stati come la Francia o l’Olanda.
Il gruppo di lavoro iniziale era formato da istituzioni che avessero già definito delle policy sull’open science e che avessero attribuito delle responsabilità sui temi della scienza aperta (un delegato o un gruppo di lavoro), ma durante il 2023 si sono aggiunte via via altre istituzioni perché il gruppo di lavoro è aperto a chiunque voglia contribuire.
Dopo alcune riunioni iniziali in cui si è impostato il lavoro e definito le dimensioni su cui operare abbiamo provato a definire un modello per la rilevazione dei dati che fosse sostenibile e applicabile a istituzioni diverse e di diversa dimensione. Gli aspetti monitorati sono le politiche, le pubblicazioni (nelle diverse declinazioni e colori dell’open access), i costi, la formazione, la valutazione e le esperienze di citizen science.
Il primo set di indicatori è stato discusso in una assemblea plenaria dove si è cercato di raffinarlo anche sulla base dei dati a disposizione. Una volta consolidato il documento si è passati alla fase applicativa e quindi ad una rilevazione di prova dove ciascun ente si è confrontato con i dati a propria disposizione. Sia per le riunioni che per la documentazione abbiamo potuto contare sulla creazione di un Virtual Research Environment da parte di CNR ISTI e di uno strumento per la raccolta dei dati che ci evitasse l’uso di formati proprietari come Excel o, peggio ancora, Word e permettesse poi una aggregazione dei dati ottenuti.
Questa fase è stata molto importante perché ha permesso a ciascun ente di misurare la propria distanza o vicinanza dal risultato ottimale e dunque anche di organizzarsi di conseguenza per le rilevazioni future.
Una volta licenziato il documento con gli indicatori sono state redatte delle linee guida che permettessero anche ad altre istituzioni una rilevazione dei dati secondo uno schema comune.
L’esito di questo sforzo comune è stato pubblicato alla fine del 2023 in Zenodo. Siamo ora nella fase di raccolta dei dati per il 2023. L’auspicio è che altre istituzioni possano aggiungersi a questo primo nucleo e che si possa riuscire ad avere un primo quadro delle pratiche della scienza aperta nel nostro paese. Speriamo inoltre che questa raccolta di dati possa trovare l’interesse del Ministero. In prospettiva sarebbe interessante esplorare quanto nuovi strumenti aperti come OpenAlex possano contribuire ad una rilevazione automatica dei dati per lo meno sulle dimensioni più generali.
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Avanti piano, quasi indietro: la riforma europea della valutazione della ricerca in Italia
Programma
19 aprile 2024, ore 10.30-13
Presiede Emanuele Conte (AISA, università di Roma 3)
Dalla testa: ASN e VQR dopo l’adesione italiana a COARA (Maria Chiara Pievatolo – AISA, università di Pisa) – registrazione 0-0.23.16
Ai piedi. La valutazione nelle università firmatarie di COARA (Davide Borrelli – AISA, università Suor Orsola Benincasa) – registrazione 0.23.17-0.46.55
La valutazione negli enti pubblici di ricerca (Stefano Giovannini – INAF, GLOS CoPER) – registrazione 0.46.56-1.02.59
Di dati e di classifiche, proprietari e no: Utrecht, la Sorbona, il CNRS e noi (Paola Galimberti – AISA, università di Milano Statale) – registrazione 1.03.00-1.18.56
COARA: è possibile una valutazione responsabile della ricerca? (Alberto Baccini – AISA, università di Siena) – registrazione 1.18.57-1.40.33
Valutazione scientifica e valutazione di stato (Roberto Caso – AISA, università di Trento) – registrazione 1.40.34-1.55.31
Discussione: Daniela Tafani (Università di Pisa – AISA) Breve commento sull’uso dei generatori dei linguaggio per la valutazione e la composizione di testi scientifici – 1.56.00-1.59.25
ore 13 pausa pranzo
ore 14-16 – registrazione 1.59.26-fine
Presiede Maria Chiara Pievatolo
Tavola rotonda (con la partecipazione dei relatori)
Anna Grazia Chiodetti (INGV, GLOS CoPER), Massimo Grassi (ITRN), Chiara Montagna (INGV), Barbara Pasa (Università IUAV, Venezia), Francesca Masini (università di Bologna), Francesca Di Donato (ILC-CNR)
Conclusioni
Bologna, Plesso Belmeloro (via Andreatta 8), aula F
Riassunto operativo dei lavori della conferenza Executive summary
La registrazione integrale della conferenza è disponibile qui: https://bbb-proxy.meet.garr.it/playback/presentation/2.3/b4a83f5f9dbe2803319f69a059380a63ed5ea216-1713515546194
Patrimonio culturale di pubblico dominio (riproduzione del)
Del patrimonio culturale dell’umanità fanno parte opere dell’ingegno i cui diritti economici d’autore sono scaduti e, in grande quantità, opere che non sono mai state protette dal diritto d’autore come il David di Michelangelo e l’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci. Queste ultime rappresentano una porzione notevole del patrimonio culturale, in quanto le leggi del diritto d’autore occupano una minuscola frazione della storia dell’uomo. Basti ricordare che la prima legge moderna del diritto d’autore è rappresentata dallo Statute of Anne inglese del 1710.
L’appartenenza di un’ampia parte del patrimonio culturale al pubblico dominio potrebbe far desumere che la riproduzione – in particolare, la riproduzione digitale – dei beni culturali sia libera per ragioni commerciali e non commerciali. Così non è. L’effettiva esistenza di un regime di pubblico dominio è minacciata da istanze di controllo esclusivo avanzate da chi ha la proprietà o la custodia del bene culturale materiale oggetto della riproduzione. Tali istanze sono generalmente mosse da due obiettivi: un controllo censorio e un controllo economico. Il primo obiettivo attiene a valutazioni sulla compatibilità dell’uso con la destinazione del bene, il secondo concerne prospettive di guadagno connesse all’uso.
Le istanze di controllo esclusivo si basano, in gran parte, su strumenti giuridici che costituiscono forme anomale di proprietà intellettuale definibili come surrogati della proprietà intellettuale o pseudo-proprietà intellettuale. Qui di seguito si elencano i principali strumenti di controllo esclusivo.
a) Divieti di riproduzione basati sulla proprietà del bene materiale.
b) Divieti di riproduzione basati su dichiarazioni unilaterali o contratti.
c) Divieti di riproduzione basati su discipline pubblicistiche attinenti al patrimonio culturale.
d) Divieti di riproduzione basati su diritti della personalità.
Il movimento dell’accesso aperto al patrimonio culturale – ad esempio, la rete OpenGLAM – sta profondendo energie nella promozione della libera riproduzione del patrimonio culturale. Molte istituzioni culturali nel mondo garantiscono la libera riproduzione per qualsiasi fine, commerciale e non commerciale, delle proprie collezioni fisiche e digitali. Tuttavia, l’apertura su Internet del patrimonio culturale è ancora molto lontana dal rappresentare il modello dominante.
Emblematico è il panorama Euro-italiano.
A livello dell’Unione Europea la disciplina giuridica emanata per la tutela del pubblico dominio è frammentaria, incompleta e solo parzialmente efficace. In particolare, l’art. 14 della Direttiva (UE) 2019/790 sulla riproduzione delle opere delle arti visive di dominio pubblico è una disposizione che ha uno scopo limitato e presta il fianco a interpretazioni che ne restringono ulteriormente il campo di applicazione.
A livello italiano si sta facendo avanti l’idea che gli articoli dal 106 al 108 del Codice dei beni culturali (D.lgs. 2004/42) attribuiscano allo Stato il potere di controllo esclusivo delle riproduzioni. Si badi che tale controllo esclusivo non riguarderebbe solo le riproduzioni effettuate sul luogo dove è collocato fisicamente il bene materiale, ma si estenderebbe anche alle riproduzioni delle copie già effettuate sul luogo e comunicate al pubblico. In particolare, l’estensione riguarderebbe anche le copie digitali reperibili su Internet. In alcune interpretazioni giurisprudenziali il potere di controllo esclusivo derivante dal Codice dei beni culturali si assocerebbe a un preteso diritto all’immagine del bene culturale fondato sulla disciplina dei diritti della personalità rinvenibile nella Costituzione e nel Codice civile.
L’esempio del patrimonio culturale dimostra che il pubblico dominio è minacciato non solo dall’estensione della proprietà intellettuale ma anche dall’irrompere sulla scena giuridica della pseudo-proprietà intellettuale.
Le istanze di controllo esclusivo della riproduzione dei beni culturali incidono pesantemente sulla scienza aperta e sui beni comuni della conoscenza erodendo diritti e libertà fondamentali che attengono allo sviluppo nonché alla promozione della cultura e della ricerca.
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Generatori di linguaggio
I grandi modelli del linguaggio naturale sono sistemi informatici di natura statistica, che predicono sequenze di forme linguistiche, sulla base di informazioni probabilistiche sul modo in cui le sequenze di testo si combinano nei testi di partenza.
I generatori di linguaggio sono grandi modelli del linguaggio naturale, ulteriormente programmati, attraverso interazioni con esseri umani, per produrre output che somiglino a quelle che tali esseri umani qualificano come risposte plausibili, pertinenti e appropriate.
Si tratta di sistemi nei quali il linguaggio è dissociato dal pensiero: sono infatti, al tempo stesso, capaci di produrre linguaggio e incapaci di pensare. Riproducono le relazioni semantiche che si trovano riflesse nelle caratteristiche formali del linguaggio, ma non hanno accesso al significato in senso proprio, ossia alla relazione tra le forme linguistiche e “qualcosa di esterno” ad esse.
I testi prodotti sono lessicalmente e sintatticamente corretti, ma privi di valore informativo. In quanto fondati su meri modelli del linguaggio, i generatori di linguaggio non contengono infatti alcun riferimento al vero e al falso (e neppure al possibile e all’impossibile), né alcun criterio per distinguerli.
In ambito scientifico, i prodotti di simili sistemi sono perciò generalmente inutili, dannosi e potenzialmente lesivi di diritti giuridicamente tutelati, poiché non è possibile sapere, senza sobbarcarsi con altri strumenti l’intero lavoro di verifica, se ciò che vi si legge sia vero o falso, né se si tratti della riproduzione parziale o integrale di opere dell’ingegno umano. In alcuni settori, possono essere utilizzati per la formulazione di innumerevoli alternative, purché si abbiano strumenti ulteriori e indipendenti, per “buttare via la maggior parte” di ciò che il sistema produce e verificare se non vi sia “dell’oro tra i rifiuti”.
L’attuale diffusione e commercializzazione dei generatori di linguaggio nelle diverse fasi della ricerca scientifica deriva dal ruolo dei grandi editori della sorveglianza e dei monopoli della tecnologia, che, in virtù della loro posizione dominante e della concentrazione di risorse e potere, sono in grado di dar forma alla percezione pubblica dei sistemi di intelligenza artificiale, così da tutelare il proprio modello di business e accrescere il proprio dominio. Con l’inserimento dei generatori di linguaggio in tutte le applicazioni che accompagnano le attività di ricerca, i giganti della tecnologia mirano a consolidare il ruolo di intermediazione delle piattaforme proprietarie della scienza, così da accentrare in pochi soggetti privati il bene pubblico della conoscenza e la facoltà di controllo e indirizzo della possibilità stessa di svolgere attività di ricerca.
Le promesse delle grandi aziende sono coerenti con una concezione commerciale e neoliberale della scienza: un’accelerazione delle attività di ricerca, un maggior numero di “prodotti” della ricerca e la liberazione dall’inutile fatica di scrivere, quasi che lo scrivere non coincidesse con l’attività stessa del pensare.
Gli effetti reali dell’introduzione su larga scala dei generatori di linguaggio nella ricerca scientifica erano prevedibili – e sono stati previsti – sulla base delle caratteristiche architettoniche di tali sistemi: fabbricazione, falsificazione e plagio automatizzati (e non riconoscimento dei contributi scientifici altrui, anche in assenza di plagio in senso stretto), normalizzazione, assenza di trasparenza, riproduzione sistematica e naturalizzazione della prospettiva egemonica e dei suoi stereotipi. Integrità della ricerca e impiego dei generatori di linguaggio sono dunque, al momento, reciprocamente alternativi.
Poiché sono attualmente utilizzati per l’addestramento di tali sistemi anche tutti gli input degli utenti e considerato che i dati di addestramento possono essere riprodotti per intero negli output, anche quando siano protetti dal diritto d’autore, l’uso dei generatori di linguaggio compromette la riservatezza dei dati immessi. Per questo, con riferimento alla valutazione della ricerca, il Dutch Research Council ha preliminarmente proibito qualsiasi impiego dei sistemi di intelligenza artificiale generativa nei processi di revisione.
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In lista: Anvur e la revisione paritaria aperta
Dopo aver negato quest’estate la scientificità e l’eccellenza (“classe A”) a Open Research Europe (ORE) per la sociologia generale, l’ANVUR ha aggiornato il suo regolamento per la classificazione delle riviste, aggiungendovi un articolo 18 dal titolo “Disposizione transitoria per la Open Peer Review”.
Il caso di ORE non è stato solo il primo atto di una violazione poi divenuta sistematica dei princìpi di COARA, la coalizione europea per la riforma della valutazione della ricerca verso una scienza più aperta e un uso meno irresponsabile della bibliometria, a cui l’agenzia ha aderito e partecipa. È stato anche un incidente diplomatico: negando la scientificità di ORE, l’ANVUR ha annunciato ai sociologi italiani che pubblicare i propri testi in un sito istituito dalla Commissione europea per sottoporre a revisione paritaria aperta gli articoli scritti dai vincitori di finanziamenti europei equivale, per la loro carriera accademica in Italia, a gettarli nel cestino della spazzatura.
L’ANVUR ora stabilisce, ma in via transitoria, quanto segue:
1. In alternativa ai requisiti previsti all’art. 13 c. 4,5 in caso di Riviste che adottino procedure di revisione aperta (open peer review) si prevedono – fatto salvo il rispetto delle regole etiche e di gestione dei conflitti di interesse precedentemente definite – i seguenti requisiti:
a. la tracciabilità di tutte le versioni dei contributi prodotte nel corso della procedura di revisione;
b. l’assegnazione di uno status specifico ai contributi che abbiano superato almeno due revisioni tra pari con esito positivo e la loro conseguente indicizzazione;
c. la chiara indicazione di eventuali integrazioni, modifiche o correzioni apportate dagli autori rispetto alle versioni precedenti.
Nel rispetto di quanto previsto dal c. 1, le Riviste che adottano adeguate procedure di revisione aperta sono considerate ammissibili ai fini della procedura di classificazione per l’inclusione negli elenchi delle Riviste Scientifiche e delle Riviste di Classe A, con riferimento ai soli articoli che risultino definitivamente accettati o che abbiano superato con esito positivo la revisione tra pari e che siano stati conseguentemente indicizzati.
Open Research Europe potrebbe finalmente fregiarsi dell’inclusione in tutte le liste dell’agenzia italiana? Per il momento, no: l’articolo 2 comma 2 stabilisce che le riviste accettabili “(a) prevedano l’edizione di più unità (fascicoli, volumi, numeri), con continuità e senza una data di conclusione predeterminata; (b) prevedano unità di pubblicazione formalmente identificabili e citabili (numerate e datate), che risultino in sé concluse e permettano l’identificazione al loro interno dei singoli contributi (tramite numerazione progressiva delle pagine e/o codice DOI assegnato a ciascun articolo)”.
ORE potrebbe forse darsi la pena di incaricare un box-ticker o barracaselle di creare periodicamente fascicoli in sé conclusi, numerati e datati, per accontentare l’agenzia italiana. Ma, al di là dell’interesse pragmatico, dobbiamo porci almeno due domande:
- Perché per l’agenzia è così importante che articoli già altrimenti identificabili nelle loro versioni. per esempio con il DOI, debbano essere organizzati in fascicoli come se uscissero a stampa?
- Un articolo che fosse respinto in seguito a una revisione paritaria aperta e tuttavia rimanesse pubblico, con le critiche dei revisori e le risposte degli autori, potrebbe essere considerato come titolo da una commissione scientifica locale o nazionale? Immaginiamo, per esempio, un giovane Galileo Galilei che si vede respinto un manoscritto intitolato “Sidereus Nuncius” tramite una revisione paritaria aperta a cura della Rivista di studi tolemaici, ad accesso aperto e di classe A, e che decide di lasciar pubblico l’articolo con i pareri negativi dei revisori e le sue risposte. Una commissione di concorso copernicana potrebbe riconoscere il suo “Sidereus Nuncius” come un titolo scientifico anche se, secondo l’ultimo comma dell’articolo 18, la valutazione amministrativa delle riviste è tenuta a ignorarlo? Le soglie bibliometriche permettono di eludere il problema, se il testo galileiano, pubblico ma respinto, non può essere riconosciuto come pubblicazione amministrativamente valida.
Come ricorda Alessandro Figà Talamanca in L’Impact Factor nella valutazione della ricerca e nello sviluppo dell’editoria scientifica, l’irregolarità nella pubblicazione era un motivo sufficiente per escludere riviste anche di grande tradizione, ma gestite in modo artigianale, dal database commerciale dell’ISI (ora in mano a Clarivate Analytics) sul quale si calcola il fattore d’impatto (JIF). L’esclusione, però, non aveva a che vedere con la qualità scientifica, bensì solo con la comodità e i costi del calcolo del JIF. E l’impatto di una rivista è tuttora, per il regolamento dell’ANVUR (articoli 15, comma 3 e 4), un elemento da considerare per conferirle la classe A.
Si è autorevolmente sostenuto che una situazione come quella del giovane Galileo Galilei è rara e improbabile, anche perché, sotto la valutazione di stato, gli studiosi sono precocemente addestrati a comportarsi da impiegati della ricerca e a sottoporre testi ortodossi alle riviste tolemaiche di classe A, che pure potrebbero essere luoghi di discussione scientificamente stimolanti per le provocazioni copernicane.
E tuttavia l’immaginario caso galileiano suggerisce che il nuovo regolamento sulle riviste non ha un fine in primo luogo scientifico, bensì bibliometrico, e che anche il transitorio articolo 18 opera per ridurre burocraticamente la revisione paritaria aperta in modo da renderla compatibile con la bibliometria. ANVUR fa parte di COARA – e un suo membro siede nel suo Steering Board – ma, a dispetto del terzo impegno dell’accordo continua a valutare i ricercatori, al servizio del MUR, con metriche basate sulle riviste e sulla loro classificazione, assumendole come criteri decisivi e non semplicemente complementari. Del resto, uno scenario in cui a valutare i testi pubblicati fossero davvero i pari della comunità scientifica, fuori dal controllo dell’ANVUR, e non invece la bibliometria di stato, ridimensionerebbe fortemente il ruolo dell’agenzia e del ministero dell’università e della ricerca che le sta alle spalle. E proprio per questo, probabilmente, l’agenzia preferisce tentare di ricondurre la revisione paritaria aperta a burocrazia, piuttosto che ridurre se stessa a scienza.
Aggiornamento (19/11/2024): l’ANVUR ha applicato il regolamento esattamente come previsto.
WOS e Scopus, addio da Sorbonne e CNRS
A poche settimane di distanza due importanti istituzioni universitarie e di ricerca francesi hanno annunciato la rinuncia alla sottoscrizione annuale a, rispettivamente, WOS e Scopus, le due banche dati bibliografiche private più utilizzate al mondo. Stiamo parlando di Sorbonne Université e CNRS.
L’8 dicembre 2023, la Sorbona ha pubblicato sulla sua pagina dedicata all’Open Science una breve nota in con cui annunciava che nel 2024 avrebbe interrotto “la sottoscrizione al database bibliografico Web of Science e agli strumenti bibliometrici di Clarivate. L’abbandono così netto di prodotti bibliometrici proprietari è il modo per aprire la strada a strumenti aperti e collaborativi”.
A inizio gennaio l’ha seguita il CNRS tramite un post su X del suo direttore, che scrive “CNRS non è più abbonato alla banca dati Scopus. L’impegno del CNRS in favore della scienza aperta riguarda anche i database bibliografici, per i quali è necessario un impegno verso soluzioni aperte e sostenibili”.
Entrambe le istituzioni sottolineano come la scelta sia strettamente legata a un impegno per promuovere soluzioni diverse da quelle utilizzate dalle banche dati proprietarie per calcolare e creare indici bibliometrici relativi alle pubblicazioni, basate sull’open science. Schuhl nel suo post prospetta un lavoro tutto da fare per costruire queste nuove pratiche, consapevole che da decenni strumenti bibliometrici proprietari hanno conquistato l’egemonia grazie allo stretto legame con la valutazione della carriera accademica e all’assegnazione dei fondi di ricerca.
Si veda anche “La Sorbona adotta OpenAlex e interrompe l’abbonamento a Web of Science” su ROARS.
Aggiornamento
La sospensione dell’abbonamento a Scopus da parte del CMRS francese è ora ufficiale, e ufficialmente intesa come un primo passo per liberarsi dalla dipendenza da tutti i database proprietari.
Corte dei conti e open access alle immagini dei beni culturali
A seguito dell’emanazione da parte del Ministero della Cultura del d.m. n. 8 del 13/01/2023 (atto di indirizzo concernente l’individuazione delle priorità politiche da realizzarsi nell’anno 2023) e del d.m. n. 161 dell’11/04/2023 (linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali) l’Associazione Italiana per la promozione della Scienza Aperta (AISA) aveva chiesto con una lettera aperta del 3 maggio 2023 al Ministro della Cultura l’immediato cambiamento delle politiche ministeriali in materia di uso a scopo scientifico delle immagini dei beni culturali.
In particolare, aveva chiesto:
a) la totale e assoluta liberalizzazione, senza pagamento di tariffe, della riproduzione e del riuso per scopi scientifici dei beni culturali del patrimonio italiano;
b) la modifica del Codice dei beni culturali al fine di fissare per via legislativa il principio di libera riproduzione e libero riuso dei beni culturali per scopi scientifici.
Nella propria Deliberazione 20 ottobre 2023, n. 76/2023/G la Corte dei conti ha ribadito quanto già sostenuto nella precedente Delibera n. 50/2022/G. Il libero riuso (Open Access), anche a fini commerciali, delle riproduzioni digitali prodotte dagli istituti culturali pubblici per fini di pubblica fruizione, quale principio del diritto dell’Unione Europea, rappresenta “un potente moltiplicatore di ricchezza non solo per le stesse istituzioni culturali (si vedano le ben note best practices nazionali ed internazionali), ma anche in termini di incremento del PIL”. Per questa ragione la Corte giudica negativamente il D.M. 161 11/04/2023 Linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali.
Qui di seguito si riproduce un passo della deliberazione n.76/2023/G (pp. 156-157).
“Dal punto di vista dei servizi digitali per l’utenza, è innegabile che l’importante sforzo di digitalizzazione fino ad oggi compiuto dagli uffici del Ministero sia stato per lo più orientato alla conoscenza scientifica, tutela e gestione del patrimonio piuttosto che alla sua fruizione da parte di un’utenza allargata, anche se ovviamente la digitalizzazione ha prodotto di per sé un ampliamento del bacino dei fruitori.
Per tale ragione, il Ministero ha correttamente ritenuto di implementare il coordinamento delle politiche di digitalizzazione del patrimonio culturale, nella consapevolezza che il tema dovrà essere al centro delle politiche ministeriali con uno sguardo necessariamente intersettoriale, assicurato dal Piano nazionale di digitalizzazione del patrimonio culturale.
Deve, però, rilevarsi che appare in controtendenza l’adozione del recente Decreto Ministeriale (D.M. 161 dell’11.4.2023) con il quale è stato sostanzialmente introdotto un vero e proprio “tariffario” nel campo del riuso e della riproduzione di immagini; così incidendo su temi centrali connessi allo studio ed alla valorizzazione del patrimonio culturale nazionale, nonché ad una più ampia circolazione delle conoscenze.
Il diritto comunitario ha sempre fornito precise indicazioni (da ultimo vds. Direttiva (UE) 2019/1024 – Public Sector Information) in tema di libero riuso (Open Access), anche a fini commerciali, delle riproduzioni digitali prodotte dagli istituti culturali pubblici per fini di pubblica fruizione.
L’Open Access ha da tempo dimostrato di essere un potente moltiplicatore di ricchezza non solo per le stesse istituzioni culturali (si vedano le ben note best practices nazionali ed internazionali), ma anche in termini di incremento del PIL ed è quindi considerato un asset strategico per lo sviluppo sociale, culturale ed economico dei Paesi membri dell’Unione.
L’introduzione di un “tariffario” siffatto pare, peraltro, non tener conto né delle peculiarità operative del web, né del potenziale danno alla collettività da misurarsi anche in termini di rinunce e di occasioni perdute; ponendosi, così, in evidente contrasto anche con le chiare indicazioni che provengono dal Piano Nazionale di Digitalizzazione (PND) del patrimonio culturale.
L’obiettivo da perseguire appare, ancora una volta, quello di sviluppare appieno il potenziale che la digitalizzazione del patrimonio culturale ha non solo in termini scientifici e di conoscenza, ma anche come potente fattore di crescita culturale; le cui positive ricadute, ad esempio sul piano della valorizzazione turistica dei territori, non sono che uno dei possibili ed auspicabili sviluppi.
In tal senso il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) offre la possibilità di investire importanti risorse in ambito infrastrutturale, di crescita delle competenze, di incremento delle risorse digitali e di sviluppo di nuovi servizi per i cittadini e le comunità, fornendo quindi l’opportunità di una completa e moderna trasformazione digitale del Ministero”.
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Un nuovo socio istituzionale: l’Università di Milano Bicocca
Siamo felici di dare il benvenuto all’Università di Milano Bicocca, che si aggiunge alla lista dei nostri soci istituzionali.