AISA: piano d’applicazione degli impegni sottoscritti nell’accordo COARA

L’unica attività valutativa svolta da AISA è quella connessa all’attribuzione di un premio per tesi dedicate alla scienza aperta.

Il premio è assegnato da una commissione giudicatrice composta da tre membri, nominata dal presidente d’intesa con il consiglio direttivo, il cui nome è reso noto, e che emette giudizi collegiali, una volta selezionate le tesi pertinenti, sulla base di una motivata applicazione di criteri qualitativi chiaramente specificati nel bando

Nello spirito della scienza aperta, le tesi, per partecipare al bando, devono essere rese disponibili a tutti su un archivio istituzionale o disciplinare pubblico, cioè in mano a biblioteche, università ed enti di ricerca, sotto una licenza aperta. La licenza che raccomandiamo è la Creative Commons Attribution Share-alike.

Qualora la ricerca contenuta nella tesi si basi su nuovi dati, e ciò sia legalmente possibile, chiediamo inoltre che questi dati vengano resi disponibili, preferibilmente in formato FAIR. Il formato dei dati è una raccomandazione e non un obbligo per non penalizzare i giovani studiosi la cui università non abbia fornito assistenza in merito.

Questi principi, qualora non già presenti, verranno inseriti già nel bando dell’anno in corso, che verrà pubblicato nell’estate 2024.

Che cosa chiedere agli editori

Nei Paesi Bassi il contratto trasformativo con l’editore Elsevier terminerà alla fine del 2024.

Il rapporto di JISC sui contratti trasformativi nel Regno Unito prevede che i contratti trasformativi ci metteranno almeno 70 anni per attuare il loro scopo nominale, vale a dire trasformare l’editoria ad accesso chiuso in editoria interamente ad accesso aperto: in Olanda si è dunque pensato che potesse essere utile un confronto fra i diversi portatori di interessi coinvolti nella contrattazione per l’acquisto e la fruizione dei contenuti scientifici. In questi anni, infatti, i Paesi Bassi non solo hanno rafforzato le politiche di Open science, ma si sono anche orientati verso l’autonomia digitale tramite la creazione e la promozione di infrastrutture pubbliche. E proprio la crescente insoddisfazione nei confronti dei costosi servizi dei servizi dei privati ha ispirato la necessità di discuterli pubblicamente.

Perciò, il 18 aprile 2024, il consorzio delle 14 università pubbliche olandesi ha organizzato un incontro in cui editori, esperti di comunicazione scientifica, istituzioni, bibliotecari e ricercatori si sono chiesti cosa richiedere agli editori commerciali in generale – e non soltanto a Elsevier – nei prossimi negoziati.

Qui è possibile vedere il programma e gli abstract delle diverse sessioni.

Di particolar interesse è il commento documentato e critico sull’incontro di Rene Bekkers, direttore del Center for Philanthropic Studies at the Department of Sociology of the Vrije Universiteit (VU) di Amsterdam,

I profitti non solo di Elsevier ma degli editori commerciali in generale – scrive Bekkers – sono oltraggiosamente elevati, soprattutto se consideriamo e che il presunto valore aggiunto dato dalla selezione editoriale dei testi non dipende da loro, ma dal lavoro volontario dei ricercatori che includono la revisione paritaria fra i propri doveri.

Lo status quo dell’editoria commerciale e dei suoi profitti “oltraggiosi” non è però dovuto solo agli editori, bensì anche:

  • alle società scientifiche che hanno bisogno dei profitti ricavati dalle riviste pubblicate presso editori commerciali per finanziare il proprio funzionamento.
  • alle istituzioni che continuano a fondare le proprie decisioni sul “prestigio” di sedi editoriali costosissime, sebbene l’editoria scientifica sia ormai inquinata da un’inflazione di ricerche inutili, o inventate, o con risultati ritoccati.

La pressione a pubblicare rende inoltre sempre più difficile alla revisione paritaria fungere da garanzia di qualità perché la quantità di articoli sottomessi alle riviste “prestigiose” è ormai ben superiore a quanto può essere seriamente rivisto.

Che dovremmo volere dagli editori?

Le risposte di Bekkers sono secche: dovremmo farci restituire l’enorme quantità di soldi che ci hanno estorto per servizi che non sono in grado di svolgere, e rebus sic stantibus, non dovremmo chieder loro nient’altro, a meno che non si trasformino in organizzazioni senza fini di lucro, perché non aggiungono nessun valore alle nostre pubblicazioni. E anche se, meno radicalmente, riconoscessimo gli editori commerciali come un male necessario, dovremmo almeno pretendere un impegno a migliorare la trasparenza e la qualità delle pubblicazioni attraverso forme più strutturate di peer review, la pubblicazione dei pareri dei revisori, l’aggiunta di link alla preregistrazione della ricerca e ai preprint, e l’ associazione alla pubblicazione di dati, codice e materiali accessibili.

Anche se in Italia pochi discutono e chiedono di monitorare e valutare il sistema attuale di contrattazione e la consultazione dei portatori di interesse e ed esperti non è pubblica, CRUI-CARE potrebbe avere un interesse, almeno economico, a tener presenti queste proposte nelle prossime contrattazioni.

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Contratti trasformativi: perché, in Italia, varrebbe la pena discuterne

Come capire se un articolo è scientificamente attendibile?

Dalla seconda metà del secolo scorso molte amministrazioni statali e universitarie hanno smesso di fidarsi della discussione pubblica fra scienziati per confidare in aziende private che contano le citazioni e vendono i loro calcoli. L’idea è che una rivista molto citata sia migliore di una rivista citata meno, e un articolo molto citato in riviste molto citate sia migliore di un articolo citato meno.

Questo sistema, che permette ai burocrati di valutare la scienza senza averne la più pallida idea, ha aiutato gli editori di riviste molto citate a imporre prezzi sempre più alti per abbonamenti che i ricercatori esigono e le amministrazioni pagano per comprare valutazione. Dal punto di vista della scienza, però, prezzi alti e crescenti negano l’accesso alle pubblicazioni sia ai ricercatori di istituzioni povere, sia ai cittadini che avrebbero diritto a leggere i risultati della ricerca pagata con i loro soldi. Il movimento per l’accesso aperto – ora perfino con l’accordo dei vertici dell’Unione europea – ritiene questo sistema non solo ingiustificabile, ma anche talmente inefficiente da dover essere sospeso nel periodo della pandemia, quando era vitale che i ricercatori ricercassero e i cittadini sapessero.

Come rendere i testi accessibili senza sottrarre la valutazione della ricerca agli editori scientifici commerciali e alle aziende di analisi dei dati? Si è pensato che garantire agli editori – con accordi detti trasformativi – una transizione in cui incassassero soldi sia per far leggere testi ad accesso chiuso, sia per pubblicare testi ad accesso aperto li avrebbe incoraggiati a mettere tutto, infine, ad accesso aperto.

Ma perché un editore che può farsi pagare due volte, per gli abbonamenti e per la pubblicazione ad accesso aperto, dovrebbe trasformarsi per farsi pagare una volta soltanto – soprattutto se le biblioteche rimangono obbligate a comprare le sue riviste perché le amministrazioni continuano a delegargli la valutazione della ricerca?

Non sorprendentemente, gli accordi trasformativi sono falliti: pochissime riviste hanno accettato di farsi pagare una volta sola anziché due, passando all’accesso aperto pieno. Fuori d’Italia molte istituzioni che, facendo uso di denaro dei contribuenti, rendono disponibili i loro dati e li analizzano, l’hanno riconosciuto.

In Italia, questi accordi sono stati negoziati e verranno rinegoziati dal servizio Crui-Care, offerto non gratuitamente dalla Conferenza dei Rettori delle Università Italiane. Ma i dati che la Crui rende pubblici sono pochi, difficili da trovare e non analizzati. Per dare un’idea delle cifre in gioco, l’ultimo contratto italiano con Wiley ammonta a più di 36 milioni di euro, quello in corso con Springer a più di 45 milioni di euro, e quello rinegoziato lo scorso anno con Elsevier a più di 167 milioni di euro.

Per questo AISA chiede alla Crui di pubblicare tutti i dati in merito agli accordi trasformativi e di proporre le proprie analisi. Infatti, se in Italia questi accordi avessero avuto un successo così eccezionale da render superflua ogni discussione, mostrarli, analizzarli e farli analizzare sarebbe un interesse non solo nostro, ma anche suo.

Testo della lettera aperta di AISA alla Crui

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L’università di Zurigo abbandona il ranking THE

Lo segnala l’Open science blog della Statale di Milano. Fra i motivi di questa scelta merita menzionare la partecipazione dell’ateneo svizzero a COARA, la mole di lavoro amministrativo, a carico dell’università, generata dalla necessità di preparare e consegnare dati a THE, la sottomissione delle istituzioni indicizzate a criteri quantitativi, scelti dall’azienda classificatrice, che non rappresentano affatto la complessità della loro attività.

Contratti trasformativi: una lettera aperta alla CRUI

Versione breve

La CRUI, associazione privata dei rettori italiani, offre alle università un servizio non gratuito, noto come CRUI-CARE, per la negoziazione di contratti consortili con gli editori scientifici commerciali.

Dal 2020 CRUI-CARE ha cominciato a stipulare una serie di contratti in virtù dei quali gli editori sono pagati non solo per leggere, cioè per far accedere a banche dati ad accesso chiuso, ma anche per scrivere, cioè per pubblicare ad accesso aperto. Questi contratti sono detti trasformativi perché sono stati pensati non per istituzionalizzare la pratica, deprecata, del cosiddetto double dipping, bensì come mezzi di transizione per incoraggiare gli editori a trasformare le loro riviste in riviste interamente ad accesso aperto.

Secondo quanto registrato in ESAC, i contratti trasformativi con controparte italiana sono 17, di cui 13 sotto la responsabilità di CRUI-CARE. Sebbene sia difficile evincerlo dal suo sito, non aggiornato nel momento in cui scriviamo, alcuni contratti sono in corso di rinnovo  (Wiley, ACS) o scadono alla fine del 2024 (Emerald, IEEE, RSC, Springer e Kluwer).

Come mai, di spese così imponenti in termini di impegno del denaro amministrato da pubbliche istituzioni, esito di un “processo negoziale” che “si svolge alla luce del rispetto della normativa fissata in tema di contratti pubblici”, non esiste un rendiconto pubblico? Per dare un’idea delle cifre in gioco, l’ultimo contratto con Wiley ammonta a più di 36 milioni di euro, quello in corso con Springer a più di 45 milioni di euro, e quello rinegoziato lo scorso anno con Elsevier a più di 167 milioni di euro.

La Reference Guide to Transformative Agreements suggerisce che le istituzioni, prima di negoziare contratti trasformativi, raccolgano dati sia sulle pubblicazioni dei loro autori, sia sulle spese sostenute per pagare APC a editori che li richiedono come prezzo dell’accesso aperto. In base a quali informazioni CRUI-CARE ha concluso i suoi 13 contratti trasformativi? CRUI-CARE ha raccolto qualche dato in autonomia, o si è limitata a prestar fede a quelli forniti degli editori?

In Italia, la mancanza – o la segretezza – di questo ipotetico studio preliminare rende impossibile misurare l’efficacia degli interventi e la sostenibilità della spesa. Dopo 4 anni di accordi trasformativi non sappiamo come si siano articolati i costi nelle università pubbliche italiane e quali vantaggi o svantaggi abbiano prodotto. In particolare non sappiamo (i) quanto abbiamo pagato in questi quattro anni per i contratti trasformativi; (ii) quanto pagheremo nei prossimi anni; (iii) come i contratti trasformativi si distribuiscono fra le istituzioni italiane; (iv) quante di esse hanno aderito a ciascun contratto, se ne hanno tratto vantaggio e nel caso in che misura; (v) quanta letteratura scientifica prodotta in Italia rimane accessibile solo ad abbonamento; (vi) quanto la ricerca italiana ha contribuito all’open access a livello globale con articoli pubblicati in open access a pagamento.

Non abbiamo, in altri termini, dati la cui analisi permetta alle istituzioni di impostare linee di condotta non estemporanee per gli anni futuri, e a studenti e contribuenti di comprendere come e perché il loro denaro viene speso. Continueremo a firmarli, anche se chi – come Coalition S – registra, studia e pubblica i dati sta abbandonando l’idea di pagare per scrivere per orientarsi verso il Diamond Open Access?

Alcuni sostengono che i contratti trasformativi italiani siano giustificati perché in grado di indurre gli editori commerciali a passare all’accesso aperto. Senza i dati di cui sopra, non è però possibile valutare se lo fanno effettivamente, o se invece, come concluso in paesi come la Svezia, meritano di essere superati.1

I resoconti e le presentazioni britanniche, olandesi e tedesche sembrano suggerire che i contratti trasformativi non solo hanno imposto un sovraccarico di lavoro amministrativo, ma hanno prodotto fallimenti annunciati e conseguenze indesiderate.

Era prevedibile che solo una percentuale bassissima di riviste sarebbe passata all’accesso aperto, come documentato da Coalition S: perché un editore commerciale, con un vincolo contrattuale temporaneo, e in grado di spuntare prezzi altissimi sia per leggere sia per scrivere grazie a una valutazione bibliometrica della ricerca in Italia imposta anche amministrativamente, dovrebbe aver interesse a passare all’accesso aperto? Fra le conseguenze indesiderate si annovera, invece, una ulteriore concentrazione dell’editoria e delle relative piattaforme, una netta diminuzione del numero di articoli depositati negli archivi aperti e un aumento, proprio nelle riviste cosiddette trasformative, degli articoli ad accesso chiuso.2

Sui contratti trasformativi del Regno Unito, Jisc ha composto una revisione critica approfondita e anzi doverosa per un paese che vi ha speso in questi anni 137 milioni di sterline, pubblicando 39.163 articoli.3 I revisori britannici hanno lavorato su questioni riproponibili anche per l’Italia.

  1. Quale percentuale della letteratura accademica è ad accesso aperto?
  2. Quale impatto hanno avuto gli accordi trasformativi negoziati a livello consortile sull’accesso aperto delle pubblicazioni scientifiche a livello nazionale?
  3. Che effetto hanno avuto gli accordi trasformativi sui costi per le istituzioni di ricerca?
  4. In che misura gli accordi trasformativi hanno facilitato la conformità con i requisiti degli enti finanziatori?
  5. In che misura gli accordi trasformativi hanno consentito una maggiore trasparenza dei processi di accesso aperto degli editori scientifici?

Il rapporto britannico, sebbene molti dati di cui ha fatto uso siano soggetti a clausole di segretezza, riferisce che la spesa per i contratti trasformativi rappresenta più di un terzo dell’esborso delle biblioteche del Regno Unito per materiale librario. Riconosce, inoltre, che, a dispetto del dispendio di denaro pubblico, lo scopo di indurre le riviste scientifiche commerciali degli editori più grandi a passare all’accesso aperto pieno si realizzerà, a questo passo, fra 72 anni,4 quando saremo tutti morti. Ci si è chiesti, inoltre, se render pubblici a carico del contribuente articoli su riviste amministrativamente prestigiose indurrà mai i ricercatori a comprendere che la pubblicità a cui l’accesso aperto mirerebbe è quella della scienza e non quella del prestigio.

Disporre di informazioni pubbliche, nazionali e internazionali, sull’ammontare della spesa e su quanto se ne è ricavato è fondamentale per capire si ci siamo approssimati ai risultati attesi, ammesso e non concesso che risultati si attendessero. A ridosso dell’eventuale riapertura dei negoziati per il rinnovo di contratti ormai trasformativi solo in un senso ironico, sarebbe cruciale discutere della loro efficacia anche nel medio e nel lungo termine, e sui possibili modelli alternativi. E sarebbe anche utile sapere se, ai sensi dell’articolo 45 comma 2 del nuovo codice dei contratti pubblici, i negoziatori CRUI-CARE ricevono, a titolo di incentivo, una percentuale dell’importo complessivo, o se la CRUI ha un regolamento specifico in merito, essendo fatta salva “la facoltà delle stazioni appaltanti e degli enti concedenti di prevedere una modalità diversa di retribuzione delle funzioni tecniche svolte dai propri dipendenti”.

Non basta raccontare che gli articoli ad accesso aperto, così generosamente finanziati con denaro altrui, sono, non sorprendentemente, aumentati di numero. Sarebbe importante avere anche le informazioni di contesto ricavabili dalla risposte alle cinque domande dei revisori Jisc.

E non sarebbe difficile ottenerle, se CRUI-CARE rendesse disponibili alle istituzioni e ai cittadini i dati necessari a decidere con cognizione di causa, a sviluppare politiche sulla scienza non estemporanee e a permettere al ministero dell’università e della ricerca di rispondere alle richieste dell’Unione Europea, popolandone i rapporti sulla scienza aperta che al momento, per quanto concerne l’Italia, rimangono desolatamente vuoti.

Chiediamo dunque a CRUI CARE di render pubblici tutti i dati sui contratti trasformativi di cui dispone. Se, per la causa dell’accesso aperto, sono stati un cosi brillante successo dovrebbe essere anche nel suo interesse.

Aggiornamento: nei Paesi Bassi le prospettive dei contratti trasformativi sono oggetto di incontri pubblici a cui partecipano tutti i portatori di interessi.

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Dal basso: un osservatorio sulla scienza aperta in Italia

Durante il 7. convegno di AISA tenutosi a Roma presso il CNR nel 2022 si è pensato di radunare università ed enti di ricerca che avessero definito al loro interno processi e responsabilità in relazione alle diverse dimensioni della scienza aperta.

Nell’incontro i referenti di ciascun ente hanno cercato di descrivere lo stato dell’arte delle politiche sulla scienza aperta nella propria istituzione. È emersa l’esigenza comune di avere dati raccolti in maniera omogenea che potessero essere confrontati, scambiati ed aggregati, con lo scopo di fornire un quadro – certamente ricco e variegato – di quanto si sta facendo in questo momento in Italia.

Questo quadro, in questo momento, manca totalmente nel nostro paese. Anche per questo il Ministero si trova in difficoltà a rispondere alle richieste di dati da parte dell’Europa. Ci è quindi sembrato utile sviluppare uno schema comune e sostenibile per monitorare le attività connesse alla scienza aperta che tenesse presente i modelli di raccolta dati dell’Unione Europea e di stati come la Francia o l’Olanda.

Il gruppo di lavoro iniziale era formato da istituzioni che avessero già definito delle policy sull’open science e che avessero attribuito delle responsabilità sui temi della scienza aperta (un delegato o un gruppo di lavoro), ma durante il 2023 si sono aggiunte via via altre istituzioni perché il gruppo di lavoro è aperto a chiunque voglia contribuire.

Dopo alcune riunioni iniziali in cui si è impostato il lavoro e definito le dimensioni su cui operare abbiamo provato a definire un modello per la rilevazione dei dati che fosse sostenibile e applicabile a istituzioni diverse e di diversa dimensione. Gli aspetti monitorati sono le politiche, le pubblicazioni (nelle diverse declinazioni e colori dell’open access), i costi, la formazione, la valutazione e le esperienze di citizen science.

Il primo set di indicatori è stato discusso in una assemblea plenaria dove si è cercato di raffinarlo anche sulla base dei dati a disposizione. Una volta consolidato il documento si è passati alla fase applicativa e quindi ad una rilevazione di prova dove ciascun ente si è confrontato con i dati a propria disposizione. Sia per le riunioni che per la documentazione abbiamo potuto contare sulla creazione di un Virtual Research Environment da parte di CNR ISTI e di uno strumento per la raccolta dei dati che ci evitasse l’uso di formati proprietari come Excel o, peggio ancora, Word e permettesse poi una aggregazione dei dati ottenuti.

Questa fase è stata molto importante perché ha permesso a ciascun ente di misurare la propria distanza o vicinanza dal risultato ottimale e dunque anche di organizzarsi di conseguenza per le rilevazioni future.

Una volta licenziato il documento con gli indicatori sono state redatte delle linee guida che permettessero anche ad altre istituzioni una rilevazione dei dati secondo uno schema comune.

L’esito di questo sforzo comune è stato pubblicato alla fine del 2023 in Zenodo.  Siamo ora nella fase di raccolta dei dati per il 2023. L’auspicio è che altre istituzioni possano aggiungersi a questo primo nucleo e che si possa riuscire ad avere un primo quadro delle pratiche della scienza aperta nel nostro paese. Speriamo inoltre che questa raccolta di dati possa trovare l’interesse del Ministero. In prospettiva sarebbe interessante esplorare quanto nuovi strumenti aperti come OpenAlex possano contribuire ad una rilevazione automatica dei dati per lo meno sulle dimensioni più generali.

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Avanti piano, quasi indietro: la riforma europea della valutazione della ricerca in Italia

Programma

 

19 aprile 2024, ore 10.30-13

 

Presiede Emanuele Conte (AISA, università di Roma 3)

 

Dalla testa: ASN e VQR dopo l’adesione italiana a COARA (Maria Chiara Pievatolo – AISA, università di Pisa) – registrazione 0-0.23.16

Ai piedi. ​​​La valutazione nelle università firmatarie di COARA (Davide Borrelli – AISA, università Suor Orsola Benincasa) – registrazione 0.23.17-0.46.55

La valutazione negli enti pubblici di ricerca (Stefano Giovannini – INAF, GLOS CoPER) –  registrazione 0.46.56-1.02.59

Di dati e di classifiche, proprietari e no: Utrecht, la Sorbona, il CNRS e noi (Paola Galimberti – AISA, università di Milano Statale)​​​​ – registrazione 1.03.00-1.18.56

COARA: è possibile una valutazione responsabile della ricerca? (Alberto Baccini – AISA, università di Siena) – registrazione 1.18.57-1.40.33

Valutazione scientifica e valutazione di stato (Roberto Caso – AISA, università di Trento) – registrazione 1.40.34-1.55.31

Discussione: Daniela Tafani (Università di Pisa – AISA) Breve commento sull’uso dei generatori dei linguaggio per la valutazione e la composizione di testi scientifici – 1.56.00-1.59.25

ore 13 pausa pranzo

 

ore 14-16 – registrazione 1.59.26-fine

Presiede Maria Chiara Pievatolo

Tavola rotonda (con la partecipazione dei relatori)
Anna Grazia Chiodetti (INGV, GLOS CoPER), Massimo Grassi (ITRN), Chiara Montagna (INGV), Barbara Pasa (Università IUAV, Venezia), Francesca Masini (università di Bologna), Francesca Di Donato (ILC-CNR)

Conclusioni

Bologna, Plesso Belmeloro (via Andreatta 8), aula F

Riassunto operativo dei lavori della conferenza                      Executive summary

La registrazione integrale della conferenza è disponibile qui: https://bbb-proxy.meet.garr.it/playback/presentation/2.3/b4a83f5f9dbe2803319f69a059380a63ed5ea216-1713515546194

Patrimonio culturale di pubblico dominio (riproduzione del)

Del patrimonio culturale dell’umanità fanno parte opere dell’ingegno i cui diritti economici d’autore sono scaduti e, in grande quantità, opere che non sono mai state protette dal diritto d’autore come il David di Michelangelo e l’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci. Queste ultime rappresentano una porzione notevole del patrimonio culturale, in quanto le leggi del diritto d’autore occupano una minuscola frazione della storia dell’uomo. Basti ricordare che la prima legge moderna del diritto d’autore è rappresentata dallo Statute of Anne inglese del 1710.

L’appartenenza di un’ampia parte del patrimonio culturale al pubblico dominio potrebbe far desumere che la riproduzione – in particolare, la riproduzione digitale – dei beni culturali sia libera per ragioni commerciali e non commerciali. Così non è. L’effettiva esistenza di un regime di pubblico dominio è minacciata da istanze di controllo esclusivo avanzate da chi ha la proprietà o la custodia del bene culturale materiale oggetto della riproduzione. Tali istanze sono generalmente mosse da due obiettivi: un controllo censorio e un controllo economico. Il primo obiettivo attiene a valutazioni sulla compatibilità dell’uso con la destinazione del bene, il secondo concerne prospettive di guadagno connesse all’uso.

Le istanze di controllo esclusivo si basano, in gran parte, su strumenti giuridici che costituiscono forme anomale di proprietà intellettuale definibili come surrogati della proprietà intellettuale o pseudo-proprietà intellettuale. Qui di seguito si elencano i principali strumenti di controllo esclusivo.

a) Divieti di riproduzione basati sulla proprietà del bene materiale.

b) Divieti di riproduzione basati su dichiarazioni unilaterali o contratti.

c) Divieti di riproduzione basati su discipline pubblicistiche attinenti al patrimonio culturale.

d) Divieti di riproduzione basati su diritti della personalità.

Il movimento dell’accesso aperto al patrimonio culturale – ad esempio, la rete OpenGLAM – sta profondendo energie nella promozione della libera riproduzione del patrimonio culturale. Molte istituzioni culturali nel mondo garantiscono la libera riproduzione per qualsiasi fine, commerciale e non commerciale, delle proprie collezioni fisiche e digitali. Tuttavia, l’apertura su Internet del patrimonio culturale è ancora molto lontana dal rappresentare il modello dominante.

Emblematico è il panorama Euro-italiano.

A livello dell’Unione Europea la disciplina giuridica emanata per la tutela del pubblico dominio è frammentaria, incompleta e solo parzialmente efficace. In particolare, l’art. 14 della Direttiva (UE) 2019/790 sulla riproduzione delle opere delle arti visive di dominio pubblico è una disposizione che ha uno scopo limitato e presta il fianco a interpretazioni che ne restringono ulteriormente il campo di applicazione.

A livello italiano si sta facendo avanti l’idea che gli articoli dal 106 al 108 del Codice dei beni culturali (D.lgs. 2004/42) attribuiscano allo Stato il potere di controllo esclusivo delle riproduzioni. Si badi che tale controllo esclusivo non riguarderebbe solo le riproduzioni effettuate sul luogo dove è collocato fisicamente il bene materiale, ma si estenderebbe anche alle riproduzioni delle copie già effettuate sul luogo e comunicate al pubblico. In particolare, l’estensione riguarderebbe anche le copie digitali reperibili su Internet. In alcune interpretazioni giurisprudenziali il potere di controllo esclusivo derivante dal Codice dei beni culturali si assocerebbe a un preteso diritto all’immagine del bene culturale fondato sulla disciplina dei diritti della personalità rinvenibile nella Costituzione e nel Codice civile.

L’esempio del patrimonio culturale dimostra che il pubblico dominio è minacciato non solo dall’estensione della proprietà intellettuale ma anche dall’irrompere sulla scena giuridica della pseudo-proprietà intellettuale.

Le istanze di controllo esclusivo della riproduzione dei beni culturali incidono pesantemente sulla scienza aperta e sui beni comuni della conoscenza erodendo diritti e libertà fondamentali che attengono allo sviluppo nonché alla promozione della cultura e della ricerca.

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Generatori di linguaggio

I grandi modelli del linguaggio naturale sono sistemi informatici di natura statistica, che predicono sequenze di forme linguistiche, sulla base di informazioni probabilistiche sul modo in cui le sequenze di testo si combinano nei testi di partenza.

I generatori di linguaggio sono grandi modelli del linguaggio naturale, ulteriormente programmati, attraverso interazioni con esseri umani, per produrre output che somiglino a quelle che tali esseri umani qualificano come risposte plausibili, pertinenti e appropriate.

Si tratta di sistemi nei quali il linguaggio è dissociato dal pensiero: sono infatti, al tempo stesso, capaci di produrre linguaggio e incapaci di pensare. Riproducono le relazioni semantiche che si trovano riflesse nelle caratteristiche formali del linguaggio, ma non hanno accesso al significato in senso proprio, ossia alla relazione tra le forme linguistiche e “qualcosa di esterno” ad esse.

I testi prodotti sono lessicalmente e sintatticamente corretti, ma privi di valore informativo. In quanto fondati su meri modelli del linguaggio, i generatori di linguaggio non contengono infatti alcun riferimento al vero e al falso (e neppure al possibile e all’impossibile), né alcun criterio per distinguerli.

In ambito scientifico, i prodotti di simili sistemi sono perciò generalmente inutili, dannosi e potenzialmente lesivi di diritti giuridicamente tutelati, poiché non è possibile sapere, senza sobbarcarsi con altri strumenti l’intero lavoro di verifica, se ciò che vi si legge sia vero o falso, né se si tratti della riproduzione parziale o integrale di opere dell’ingegno umano. In alcuni settori, possono essere utilizzati per la formulazione di innumerevoli alternative, purché si abbiano strumenti ulteriori e indipendenti, per “buttare via la maggior parte” di ciò che il sistema produce e verificare se non vi sia “dell’oro tra i rifiuti”.

L’attuale diffusione e commercializzazione dei generatori di linguaggio nelle diverse fasi della ricerca scientifica deriva dal ruolo dei grandi editori della sorveglianza e dei monopoli della tecnologia, che, in virtù della loro posizione dominante e della concentrazione di risorse e potere, sono in grado di dar forma alla percezione pubblica dei sistemi di intelligenza artificiale, così da tutelare il proprio modello di business e accrescere il proprio dominio. Con l’inserimento dei generatori di linguaggio in tutte le applicazioni che accompagnano le attività di ricerca, i giganti della tecnologia mirano a consolidare il ruolo di intermediazione delle piattaforme proprietarie della scienza, così da accentrare in pochi soggetti privati il bene pubblico della conoscenza e la facoltà di controllo e indirizzo della possibilità stessa di svolgere attività di ricerca.

Le promesse delle grandi aziende sono coerenti con una concezione commerciale e neoliberale della scienza: un’accelerazione delle attività di ricerca, un maggior numero di “prodotti” della ricerca e la liberazione dall’inutile fatica di scrivere, quasi che lo scrivere non coincidesse con l’attività stessa del pensare.

Gli effetti reali dell’introduzione su larga scala dei generatori di linguaggio nella ricerca scientifica erano prevedibili – e sono stati previsti – sulla base delle caratteristiche architettoniche di tali sistemi: fabbricazione, falsificazione e plagio automatizzati (e non riconoscimento dei contributi scientifici altrui, anche in assenza di plagio in senso stretto), normalizzazione, assenza di trasparenza, riproduzione sistematica e naturalizzazione della prospettiva egemonica e dei suoi stereotipi. Integrità della ricerca e impiego dei generatori di linguaggio sono dunque, al momento, reciprocamente alternativi.

Poiché sono attualmente utilizzati per l’addestramento di tali sistemi anche tutti gli input degli utenti e considerato che i dati di addestramento possono essere riprodotti per intero negli output, anche quando siano protetti dal diritto d’autore, l’uso dei generatori di linguaggio compromette la riservatezza dei dati immessi. Per questo, con riferimento alla valutazione della ricerca, il Dutch Research Council ha preliminarmente proibito qualsiasi impiego dei sistemi di intelligenza artificiale generativa nei processi di revisione.

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In lista: Anvur e la revisione paritaria aperta

Dopo aver negato quest’estate la scientificità e l’eccellenza (“classe A”) a Open Research Europe (ORE) per la sociologia generale, l’ANVUR ha aggiornato il suo regolamento per la classificazione delle riviste, aggiungendovi un articolo 18 dal titolo “Disposizione transitoria per la Open Peer Review”.

Il caso di ORE non è stato solo il primo atto di una violazione poi divenuta sistematica dei princìpi di COARA, la coalizione europea per la riforma della valutazione della ricerca verso una scienza più aperta e un uso meno irresponsabile della bibliometria, a cui l’agenzia ha aderito e partecipa. È stato anche un incidente diplomatico: negando la scientificità di ORE, l’ANVUR ha annunciato ai sociologi italiani che pubblicare i propri testi in un sito istituito dalla Commissione europea per sottoporre a revisione paritaria aperta gli articoli scritti dai vincitori di finanziamenti europei equivale, per la loro carriera accademica in Italia, a gettarli nel cestino della spazzatura.

L’ANVUR ora stabilisce, ma in via transitoria, quanto segue:

1. In alternativa ai requisiti previsti all’art. 13 c. 4,5 in caso di Riviste che adottino procedure di revisione aperta (open peer review) si prevedono – fatto salvo il rispetto delle regole etiche e di gestione dei conflitti di interesse precedentemente definite – i seguenti requisiti:
a. la tracciabilità di tutte le versioni dei contributi prodotte nel corso della procedura di revisione;
b. l’assegnazione di uno status specifico ai contributi che abbiano superato almeno due revisioni tra pari con esito positivo e la loro conseguente indicizzazione;
c. la chiara indicazione di eventuali integrazioni, modifiche o correzioni apportate dagli autori rispetto alle versioni precedenti.
Nel rispetto di quanto previsto dal c. 1, le Riviste che adottano adeguate procedure di revisione aperta sono considerate ammissibili ai fini della procedura di classificazione per l’inclusione negli elenchi delle Riviste Scientifiche e delle Riviste di Classe A, con riferimento ai soli articoli che risultino definitivamente accettati o che abbiano superato con esito positivo la revisione tra pari e che siano stati conseguentemente indicizzati.

Open Research Europe potrebbe finalmente fregiarsi dell’inclusione in tutte le liste dell’agenzia italiana? Per il momento, no: l’articolo 2 comma 2 stabilisce che le riviste accettabili “(a) prevedano l’edizione di più unità (fascicoli, volumi, numeri), con continuità e senza una data di conclusione predeterminata; (b) prevedano unità di pubblicazione formalmente identificabili e citabili (numerate e datate), che risultino in sé concluse e permettano l’identificazione al loro interno dei singoli contributi (tramite numerazione progressiva delle pagine e/o codice DOI assegnato a ciascun articolo)”.

ORE potrebbe forse darsi la pena di incaricare un box-ticker o barracaselle di creare periodicamente fascicoli in sé conclusi, numerati e datati, per accontentare l’agenzia italiana. Ma, al di là dell’interesse pragmatico, dobbiamo porci almeno due domande:

  1. Perché per l’agenzia è così importante che articoli già altrimenti identificabili nelle loro versioni. per esempio con il DOI, debbano essere organizzati in fascicoli come se uscissero a stampa?
  2. Un articolo che fosse respinto in seguito a una revisione paritaria aperta e tuttavia rimanesse pubblico, con le critiche dei revisori e le risposte degli autori, potrebbe essere considerato come titolo da una commissione scientifica locale o nazionale? Immaginiamo, per esempio, un giovane Galileo Galilei che si vede respinto un manoscritto intitolato “Sidereus Nuncius” tramite una revisione paritaria aperta a cura della Rivista di studi tolemaici, ad accesso aperto e di classe A, e che decide di lasciar pubblico l’articolo con i pareri negativi dei revisori e le sue risposte. Una commissione di concorso copernicana potrebbe riconoscere il suo “Sidereus Nuncius” come un titolo scientifico anche se, secondo l’ultimo comma dell’articolo 18, la valutazione amministrativa delle riviste è tenuta a ignorarlo? Le soglie bibliometriche permettono di eludere il problema, se il testo galileiano, pubblico ma respinto, non può essere riconosciuto come pubblicazione amministrativamente valida.

Come ricorda Alessandro Figà Talamanca in L’Impact Factor nella valutazione della ricerca e nello sviluppo dell’editoria scientifica, l’irregolarità nella pubblicazione era un motivo sufficiente per escludere riviste anche di grande tradizione, ma gestite in modo artigianale, dal database commerciale dell’ISI (ora in mano a Clarivate Analytics) sul quale si calcola il fattore d’impatto (JIF). L’esclusione, però, non aveva a che vedere con la qualità scientifica, bensì solo con la comodità e i costi del calcolo del JIF. E l’impatto di una rivista è tuttora, per il regolamento dell’ANVUR (articoli 15, comma 3 e 4), un elemento da considerare per conferirle la classe A.

Si è autorevolmente sostenuto che una situazione come quella del giovane Galileo Galilei è rara e improbabile, anche perché, sotto la valutazione di stato, gli studiosi sono precocemente addestrati a comportarsi da impiegati della ricerca e a sottoporre testi ortodossi alle riviste tolemaiche di classe A, che pure potrebbero essere luoghi di discussione scientificamente stimolanti per le provocazioni copernicane.

E tuttavia l’immaginario caso galileiano suggerisce che il nuovo regolamento sulle riviste non ha un fine in primo luogo scientifico, bensì bibliometrico, e che anche il transitorio articolo 18 opera per ridurre burocraticamente la revisione paritaria aperta in modo da renderla compatibile con la bibliometria. ANVUR fa parte di COARA – e un suo membro siede nel suo Steering Board – ma, a dispetto del terzo impegno dell’accordo continua a valutare i ricercatori, al servizio del MUR, con metriche basate sulle riviste e sulla loro classificazione, assumendole come criteri decisivi e non semplicemente complementari. Del resto, uno scenario in cui a valutare i testi pubblicati fossero davvero i pari della comunità scientifica, fuori dal controllo dell’ANVUR, e non invece la bibliometria di stato, ridimensionerebbe fortemente il ruolo dell’agenzia e del ministero dell’università e della ricerca che le sta alle spalle. E proprio per questo, probabilmente, l’agenzia preferisce tentare di ricondurre la revisione paritaria aperta a burocrazia, piuttosto che ridurre se stessa a scienza.


Aggiornamento
(19/11/2024): l’ANVUR ha applicato il regolamento esattamente come previsto.

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